Per secoli i disastri, dalle eruzioni vulcaniche ai terremoti, passando per le alluvioni e gli uragani, sono stati interpretati come accadimenti naturali disgraziati. Si credeva che fossero il risultato della cattiva sorte oppure dell’imperscrutabile volontà divina. La stessa etimologia del termine disastro evoca la presenza di una cattiva stella, con il prefisso «dis», che ha valore peggiorativo, e il termine «astro», per indicare l’influsso sugli eventi un tempo attribuito ai corpi celesti. Ma quando pensiamo alle catastrofi, ci sono molti altri fattori da considerare oltre alla sfortuna. La sociologa Marilin Mantineo ha scritto un libro sul tema, intitolato Per una sociologia dei disastri (FrancoAngeli).
Marilin Mantineo com’è nato lo studio dei disastri?
La storia dello studio sui disastri riflette l’evoluzione del nostro modo di intendere la relazione tra natura, società e rischio. Per secoli, le catastrofi sono state considerate eventi eccezionali e incontrollabili. Soltanto negli anni Settanta del Novecento si è affermato un approccio critico e socio-antropologico. Oggi i disastri sono letti come processi politicamente situati, che mettono in discussione modelli di governance, relazioni di potere e disuguaglianze.
Perché è importante studiare i disastri?
I disastri ci permettono di capire le dinamiche profonde delle società contemporanee. Non sono semplici eventi estremi, ma momenti rivelatori: mettono a nudo le disuguaglianze, evidenziano chi è esposto, protetto, ascoltato e ignorato. Svelano il funzionamento (o la crisi) delle istituzioni, il grado di fiducia sociale e la capacità di agire collettivamente. Ma un’alluvione, un terremoto o una crisi pandemica non sono solo lacerazioni: permettono anche di aprire spazi di possibilità. Accelerano trasformazioni, stimolano nuove forme di azione collettiva, obbligano a ridefinire le priorità.
Perché abbiamo la sensazione che oggi ci siano più disastri di una volta?
Disastri e pandemie hanno sempre attraversato la storia umana, ma ciò che è cambiato è il nostro modo di viverli, raccontarli e anticiparli. La nostra è una società iperconnessa e iper mediatizzata, dove ogni evento drammatico ha una risonanza immediata e globale. La complessità dei sistemi ecologici, sanitari ed economici rende evidente la nostra interdipendenza planetaria: una frana o la diffusione di un nuovo virus non sono più percepiti come eventi locali, ma come segnali di una crisi più ampia. Questa sensibilità è anche il riflesso di un conflitto strutturale sempre più evidente tra il mondo umano e l’ambiente, generato da un modello di sviluppo fondato su estrazione, accumulazione e consumo illimitato.
Come possiamo convivere con il senso del rischio imminente senza cadere nel catastrofismo?
Serve una cultura del rischio che non sia ansiogena, che non alimenti la paura ma la responsabilità. Come ha mostrato Ulrich Beck (La società del rischio, 1986), viviamo in un’epoca in cui il pericolo è la regola. La risposta non può essere né la negazione né il fatalismo. Occorre, invece, politicizzare il rischio: leggerlo come costruzione sociale, effetto di scelte politiche, economiche, istituzionali. Significa riconoscere che è distribuito in modo diseguale. Come spiego nel mio libro, convivere con l’incertezza non significa adattarsi passivamente, ma sviluppare strumenti per agire: rafforzare le relazioni comunitarie, valorizzare i saperi locali, costruire solidarietà ecologica e sociale.
Ci sono gruppi sociali maggiormente colpiti dai disastri?
Sì, e questo è un punto fondamentale. I disastri non colpiscono in modo neutro, ma rivelano – e spesso aggravano – disuguaglianze già esistenti. La vulnerabilità è prodotta socialmente: dipende da fattori come classe, genere, etnia, disabilità, età, status migratorio. L’idea del disastro come «livellatore sociale» è stata ampiamente smentita. Studi empirici, come quelli sull’uragano Katrina, hanno mostrato come le popolazioni afroamericane povere di New Orleans siano state le più colpite, non solo dall’evento in sé, ma dall’assenza di protezione istituzionale e dalla violenza della ricostruzione.
C’è chi si arricchisce con i disastri?
I disastri non sono solo tragedie: per alcuni rappresentano vere e proprie opportunità. È ciò che Naomi Klein ha definito disaster capitalism: l’utilizzo strategico delle crisi per imporre privatizzazioni, riforme neoliberali, espropriazioni. Dopo l’uragano Katrina, ad esempio, il sistema scolastico pubblico di New Orleans è stato smantellato e sostituito da scuole private, mentre imprese e fondi speculativi hanno guadagnato dalla ricostruzione. Lo stesso è avvenuto in Sri Lanka dopo lo tsunami del 2004, con lo sfratto delle comunità costiere per favorire il turismo di lusso. I processi di ricostruzione possono essere governati per rafforzare interessi preesistenti, rafforzando chi ha già potere e capitale. Il disastro diventa così un dispositivo di accumulazione, che seleziona chi perde e chi vince.
Una parte del suo libro è dedicata alla pandemia Covid-19. Come società abbiamo cercato di rimuovere quel che è accaduto. Ma c’è chi ne paga ancora le conseguenze. Quali sono le sue valutazioni?
La pandemia è stata molto più di un’emergenza sanitaria: è stata una crisi sistemica, una «sindemia», secondo l’approccio di Merrill Singer, in cui fattori biologici, ambientali e sociali si sono intrecciati. Ha colpito in modo diseguale, aggravando condizioni preesistenti: la precarietà lavorativa, le disuguaglianze territoriali, l’indebolimento dei servizi pubblici. Non è stata «la stessa pandemia per tutti»: anziani, migranti, donne, persone con disabilità e lavoratori essenziali hanno pagato un prezzo altissimo. Eppure, passato il momento più acuto, si è preferita una narrazione della ripartenza che ha rapidamente rimosso il vissuto di sofferenza e abbandono. Questa rimozione non è solo culturale, ma politica: ha impedito un’elaborazione collettiva, un ripensamento delle priorità, una ricostruzione del senso di responsabilità pubblica. Al contrario, sarebbe stato necessario costruire una memoria sociale, archivi dell’esperienza, interrogare la governance dell’emergenza e ripensare radicalmente le nostre priorità collettive.