Il Kunstmuseum di Basilea celebra l’artista italiano con un allestimento che non sempre lo valorizza
Non posso dire con precisione quando ho sentito per la prima volta il nome di Medardo Rosso, ma so che ho cominciato a comprendere l’importanza della sua opera nei primi anni Novanta, frequentando le aule, in quel periodo invero assai dimesse e malandate, dell’Accademia di Brera, quelle stesse aule da cui Rosso era stato espulso più o meno un secolo prima per indisciplina (aveva promosso una petizione e si era battuto, pare non solo metaforicamente, per contrastare metodi di insegnamento che gli apparivano ormai antiquati).
Nella Brera degli anni Novanta, a rinfocolare la memoria e sottolineare l’importanza dello scultore nato a Torino nel 1858 erano soprattutto Luciano Fabro e Jole De Sanna, due figure che all’intelligenza critica univano l’impegno civico nel contrastare l’incuria con cui, negli anni in cui stava per scoppiare tangentopoli, Milano trattava il proprio patrimonio artistico, basti ricordare il loro decisivo contributo per la rinascita della Casa degli artisti di Corso Garibaldi e per il recupero dei Bagni misteriosi di De Chirico nel giardino della Triennale. Fabro, in particolare, nelle affollate lezioni teoriche che teneva quando non era in giro per il mondo ad allestire mostre e delle quali, come molti suoi ex allievi, conservo ancora oggi gelosamente le registrazioni su audiocassetta, faceva spesso riferimento a Rosso come a una delle figure determinanti per lo sviluppo della sua ricerca scultorea, uno dei pochi grandi innovatori del linguaggio artistico che l’Italia poteva rivendicare nel panorama internazionale tra Otto e Novecento. Del resto era stato proprio Fabro a portare per la prima volta la giovane Sharon Hecker, oggi una delle maggiori esperte di Rosso, a Barzio, località di villeggiatura della Valsassina cara all’artista piemontese, dove, in un antico oratorio sconsacrato, ha sede il museo a lui dedicato.
Un’opera di Luciano Fabro non poteva quindi mancare – e in effetti non manca, anche se forse ce n’erano altre che si prestavano meglio allo scopo rispetto alla fotografia scelta dalle curatrici – nella grande e affollata mostra che il Kunstmuseum di Basilea, in collaborazione con il MUMOK di Vienna, dedica a Medardo Rosso quale inventore della scultura moderna. Affiancando alle sue opere quelle di una sessantina di artisti, la mostra si propone infatti di evidenziare la vasta influenza e la grande fascinazione che la sua figura ha esercitato e continua a esercitare. Non solo, articolandosi attorno ad alcuni dei temi che diventeranno centrali nell’arte del Novecento, quali la smaterializzazione, la serialità, l’anti-monumentalità, le sperimentazioni formali e materiche, la mostra premette di cogliere lo straordinario ruolo di precursore svolto da un artista che, pur provenendo da un contesto culturale provinciale qual era quello della tarda scapigliatura milanese, è riuscito a collocarsi al vertice della ricerca artistica internazionale del suo tempo. Un ruolo di precursore che mentre era ancora in vita non gli venne tuttavia riconosciuto da tutti.
La mostra basilese vuole evidenziare la grande influenza che Medardo Rosso ha esercitatoed esercita su altri artisti
A non riconoscere la primogenitura delle sue innovazioni scultoree fu in primo luogo un suo celebre collega. Colui che era diventato uno dei suoi più fervidi ammiratori dopo il suo trasferimento a Parigi nel 1889, ma che nel giro di pochi anni diventò la causa principale dell’amarezza che avvelenò gli ultimi decenni della sua vita: Auguste Rodin. Fu proprio l’acclamato autore del Pensatore e del Bacio appoggiato dalla fedele cerchia di critici a lui vicini a usurpare a Rosso la qualifica di inventore dell’impressionismo in scultura, non riconoscendo mai che il suo Monumento a Balzac del 1897 aveva contratto un debito irredimibile con le opere dello scultore italiano. E così, malgrado le date fossero indiscutibili e il debito evidentissimo, l’inchiesta di Edmond Claris pubblicata nel 1901 sulla «Nouvelle Revue» finì per scagionare pubblicamente Rodin da ogni accusa di «plagio stilistico».
Sostenuto dall’ufficialità artistica francese, Rodin si affermò rapidamente come lo scultore che per primo aveva dato forma plastica alla modernità, anche perché, e questo non va dimenticato, la produzione di Rosso era troppo esigua per poter soddisfare le esigenze di un mercato dell’arte ormai internazionale. Tuttavia se tra il grande pubblico il nome di Rodin è ancora oggi molto più noto di quello di Rosso e le sue opere maggiormente quotate, tra gli addetti ai lavori i dubbi su chi sia stato il primo tra i due a declinare l’impressionismo in ambito scultoreo non si pongono più da molto tempo. Anzi, come dimostra anche questa mostra, la qualifica di «impressionista» risulta ormai andare stretta a un autore che con le sue invenzioni ha in qualche modo anticipato gran parte della scultura che è arrivata dopo di lui.
Percorrendo le sale del Kunstmuseum di Basilea abbiamo avuto l’impressione che oggi Rosso corra un pericolo opposto rispetto al passato, ossia di essere considerato unicamente per il proprio ruolo di precursore. Mentre la sua figura viene celebrata, la sua opera rischia infatti di non venir più guardata e fruita per quello che è, ma piuttosto per le relazioni che intrattiene con quello che è venuto dopo; in altre parole, di essere apprezzata unicamente per la sua capacità di anticipare ricerche e tendenze emerse nell’ultimo secolo.
Nelle sale al secondo piano del museo, complice un allestimento non sempre felice, si ha spesso la sensazione che le sue opere vengano sovrastate da quelle degli altri artisti (ben pochi quelli a lui coevi), finendo quasi sempre per essere soffocate dall’impostazione didattica ed esemplificativa che domina l’intero percorso espositivo. Come se le sue opere fossero state poste al centro dei riflettori solo perché rappresentano il momento iniziale di un gigantesco «effetto farfalla» il cui esito finale è la variegata produzione scultorea contemporanea. Forse più adatti alle pagine di un libro che allo spazio fisico di una mostra, gli accostamenti proposti dalle curatrici mettono a confronto le estremità iniziali e finali di questo processo, omettendo però la lunga, imprevedibile e spesso invisibile catena di eventi che li dovrebbe connettere.
Se un consiglio possiamo dare a chi la mostra la deve ancora visitare è quindi quello di soffermarsi soprattutto nella sezione monografica allestita al piano terra del museo, dove le sculture di Rosso dialogano unicamente con le sue sorprendenti sperimentazioni fotografiche. Lì, più che al secondo piano, è possibile avvertire in tutta la loro singolare e fragile bellezza i delicati e fugaci battiti d’ali di farfalla che modellano le visioni di Medardo Rosso e capire veramente come abbiano potuto contribuire a scatenare il tornado che ha sconvolto il paesaggio artistico nel secolo scorso.