Sulle tracce della passeggiata – odissea di Leopold Bloom

A Misery Hill, la collina dove venivano impiccati e lasciati a marcire per mesi pirati e criminali, un vento gelido sferza le avveniristiche architetture dei Silicon Docks, il nuovo cuore tecnologico e finanziario di Dublino cresciuto sulle ceneri del vecchio porto. Scenari di città futura in progress che hanno cambiato i connotati della Dublino bigotta e provinciale di un tempo, che vantava più suore per metro quadrato del Vaticano e più pubs di tutto il pianeta.

«Siamo sempre più stressati» ribatte uno sconsolato tassista. «I turisti mi domandano dove sono finiti gli irlandesi che gli hanno raccontato, per non parlare dei pub. Dove avevano fallito inglesi, Chiesa, benpensanti, e tutti quelli che si preoccupano eccessivamente della salute altrui, li stanno quasi ammazzando ritmi di vita e leggi contro fumo e alcool!».

La categoria degli scrittori
Altri tempi da quando un dubliner particolarmente famoso, James Joyce, aveva scritto: «Bel rompicapo sarebbe attraversare Dublino senza passare davanti a nessun bar».

Quella degli scrittori è una categoria particolarmente rappresentata in città, quasi un brand per turisti e locali, sebbene oggi i fantasmi di Joyce, Jonathan Swift, Samuel Beckett, Bram Stoker, Bernard Shaw, Sean O’Casey, Oscar Wilde e W.B. Yeats si aggirino per le strade in compagnia di una folla di giovani musicisti e raffinati designers.

A ovest del centro, la grafica di vecchie rotaie che taglia un selciato annerito si interrompe davanti al cancello della Guinness Store Warehouse, storica fabbrica di una delle birre più iconiche del pianeta.

All’interno un museo ne ripercorre la gloriosa storia celebrando l’anima di Dublino con installazioni multimediali, a dar corpo a un teatro delle ombre che probabilmente farebbe rivoltare nella tomba Joyce, il quale nel suo complicato rapporto di odio-amore verso la città aveva profetizzato: «Se Dublino venisse distrutta, la si potrebbe ricostruire leggendo la mia opera… Ho provato con le mie parole a rendere i colori e i toni di Dublino, la sua atmosfera grigia ma viva, la sua confusione disorganizzata, l’atmosfera dei suoi bar, l’immobilismo sociale».

Molto è cambiato da allora, ma c’è un giorno in cui la soglia tra presente e passato viene spensieratamente oltrepassata da centinaia di persone in costume d’epoca che trasformano piazze e pub in un’unica scena teatrale open air.

Lo conoscono in tutto il mondo il Bloomsday, celebrazione di massa di una passeggiata che ha fatto scalpore il 16 giugno del 1904, esattamente centoventun anni or sono, ovvero la giornata-odissea di Leopold Bloom protagonista del capolavoro di Joyce, l’Ulisse, una pietra miliare della letteratura del XX secolo capace di dividere ancora oggi il mondo letterario ma bandita per decenni con l’accusa di immoralità in molti Paesi, Irlanda inclusa.

«Bloom è Shakespeare, Ulisse, l’ebreo errante, il lettore del “Daily Mail”, l’uomo che crede a ciò che legge nei giornali, ognuno, e il capro espiatorio…» ha scritto Gianni Celati, anglista e traduttore dell’opera caratterizzata da una particolare tecnica di scrittura, il «flusso di coscienza», uno stile narrativo che varia continuamente in cui i pensieri si susseguono liberamente senza punteggiatura.

Pagine pervase di musicalità e ironia dove ogni parola diventa un ponte verso altre parole, quasi una stralingua che si perde continuamente nei meandri dell’immaginazione ma che in realtà è frutto di un metodo rigoroso. A partire dalla data che rievoca il primo appuntamento dello scrittore con Nora, sua futura moglie e musa della sua vita.

Il Blooomsday è un’occasione imperdibile per tirare fuori il meglio dell’anima dei Dubliners, perché gli irlandesi sono per l’Irlanda quello che lo champagne è per la Francia, da vivere ripercorrendo una Dublino meno conosciuta al ritmo del proprio mood esistenziale, o seguendo l’itinerario delle diciotto tappe dell’Ulisse, idealmente collegate a episodi delle opere di Omero.

A unire il tutto provvede la geografia della città che diventa una mappa fisica, in un vissuto collettivo cementato dalla psicologia dei protagonisti che si identificano con luoghi particolari, dalla Torre Martello di Stephen ai pub, alle strade di Leopold Bloom fino alla stanza da letto di Molly.

Il percorso a tappe
Un tour de force letterario, ma anche di resistenza etilico-gastronomica da affrontare partendo carburati da una buona colazione a Sandycove nella baia di Dublino, possibilmente in qualche locale dove signore dai colorati abiti edoardiani e uomini in abito scuro con camicie dal colletto inamidato applaudono entusiasticamente attori, veri o per un giorno, mentre consumano una prima colazione che, per i devoti dell’Ulisse, deve essere rigorosamente a base di uova e bacon, pomodori, tè, caffè e vino rosso.

Proprio di fronte, in riva al mare, la mattinata inizia con altre letture di brani di Joyce sulla Martello Tower, costruita contro una possibile invasione napoleonica, dove la giornata di Leopold inizia con l’episodio di Telemaco e un piccolo museo ricorda lo scrittore.

Da qui la scena si sposta verso il centro a Rogerson’s Quay, di fronte all’eterea skyline del ponte Samuel Beckett realizzato da Calatrava che scavalca il fiume Liffey nel cuore dei Silicon Docks, alter ego contemporanea della Dublino storica che si materializza sul lungofiume con l’imponente architettura neoclassica della Custom House, la Dogana, dove di una precaria baracca in legno per vetturini appoggiata al Butt Bridge è sopravvissuto solo il ricordo nell’episodio del Cabman’s shelter.

Dal vicino O’Connell Bridge, Leopold lancia un dolce ai gabbiani senza farsi mancare una delle sue sarcastiche considerazioni, «…Una nuvoletta di fumo sorse come una piuma dal parapetto. Chiatta della birreria con birra scura da esportazione… Sarebbe interessante un giorno […] visitare la birreria. Piscine di birra scura, meraviglioso. Ci entrano anche i ratti. Bevono e si gonfiano […] Ubriachi fradici di birra scura […] Immagina berti quella roba!».

Oltre il ponte, un’infilata di palazzi annuncia O’Connell Street, gli Champs Elysées di Dublino affollati di statue di padri della patria che ascoltano pazientemente per l’ennesima volta la banda della polizia intonare Dublin Saunter davanti a una statua di Joyce, «Non c’è bisogno di affrettarsi, né di preoccuparsi / voi siete un re e la signora è una regina», mentre da un vicino pub escono le note di qualche nuovo gruppo musicale che sogna di emulare gli U2.

Il lungofiume della Liffey
Seguendo il lungofiume, dai piani superiori del Merchant’s Ark, pub che compare anche nell’Ulisse, la sottile sagoma in ferro dell’iconico Ha’Penny Bridge sembra volare sulla Liffey mentre poco più a sud gli altoparlanti dei bus turistici sparano senza pietà le note della ballata dedicata a Molly Malone, mitica venditrice ambulante immortalata da una statua completa di molluschi e carretto.

Quanto basta per un’istante di felicità dei tanti O’Connell, Reagan e Kennedy, tutti rigorosamente con cappellino verde e trifoglio stampato, arrivati in pellegrinaggio dagli States dove i loro padri erano emigrati in cerca di fortuna. Sono diretti verso le fragili miniature del Book of Kells, celebre manoscritto conservato tra le scaffalature profumate di legno e di storia della Old Library del vicino Trinity College fondato nel 1592 da Elisabetta I per «civilizzare» gli irlandesi.

Leopold Bloom invece attraversa i giardini del college dicendo tra sé che non avrebbe mai voluto viverci, tardiva vendetta dell’autore che non aveva ottenuto una raccomandazione della chiesa per iscriversi. Poi compra una saponetta al limone per Molly all’ex farmacia di Sweny, dove tra scaffali e charme vittoriani sopravvive un circolo letterario che si finanzia con la vendita di cloni della saponetta originale.

Nella vicina sala a cupola della National Library, identica alla descrizione nell’Ulisse, l’autore si ritrovava spesso con gli amici più stretti, magari per poi imbucarsi nel vicino Davy Byrne’s pub a consumare uno spuntino a base di gorgonzola e Burgundy vine che il Bloomsday ha trasformato in un rito officiato da folle di fans in costume.

Intorno a loro si respira ancora l’elegante understatement della Dublino georgiana, da Grafton street a Merrion Square, magico rettangolo scandito da coloratissime porte che un tempo erano l’indirizzo di Oscar Wilde, William Butler Yeats e del duca di Wellington, proprio quello di Waterloo, e ancora oggi sono il biglietto da visita per chi vuole scalare la nuova Dublino.

A casa di Leopold Bloom
A nord della Liffey i festeggiamenti continuano all’Ormond hotel nelle atmosfere un po’ decadenti del cosiddetto Bloomsland. Una terra promessa percorsa ogni giorno da innumerevoli lettori di Joyce, libri alla mano, da Ulisse a Gente di Dublino, seguendo le targhe in bronzo che segnalano i luoghi topici, da Belvedere House in cui studiò, alla struggente Mountjoy Square abitata fino all’inizio del diciannovesimo secolo dall’aristocrazia anglo-irlandese.

Al mitico numero 7 di Eccles Street, Leopold aveva iniziato la giornata con una colazione di «rognoni di castrato alla griglia che gli lasciarono nel palato un fine gusto d’urina leggermente aromatica», per poi concluderla idealmente con il monologo della moglie Molly. Una spericolata prova d’autore di oltre quaranta pagine con due soli segni di punteggiatura in un flusso ininterrotto di idee e sensazioni che scorrono liberamente.

Oggi l’abitazione di Leopold non esiste più, rimpiazzata da un ospedale privato, ma la porta originale è stata traslata come una preziosa reliquia nel James Joyce Centre, il piccolo museo di North Great George’s Street trasformato in sacrario di testimonianze sullo scrittore.

Il polmone verde di Dublino
Per concludere la giornata, dopo una doverosa visita alla prima copia dell’Ulisse esposta nel nuovo Museo della letteratura irlandese, non c’è niente di meglio che imbucarsi in qualche party edoardiano open air dove distinte signore in costume suonano con l’arpa struggenti ballate che accompagnano letture dell’Ulisse a St Stephen’s Green, il polmone verde di Dublino che, nelle parole di Leopold, diventa un’epopea di alberi e colori.

Oppure farsi risucchiare da qualche pub dove le ore volano via, al ritmo dall’attrazione fatale per una pint, magari meditando sulle memorabili parole di J.P. Donleavy in Ginger Man, epopea bohémienne nella Dublino degli anni Cinquanta: «Quando morirò voglio decompormi in un barile di birra scura. E quando sarò servito in tutti i pubs di Dublino, mi domando se sapranno chi io fossi». Perché Dublino è anche questo e altro ancora.

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