Un’opera divertente e scritta con brio, ma capace di stimolare una serie di riflessioni
Fare ridere in letteratura non è facile. E che a fare ridere siano delle donne è considerato (chissà poi perché) ancora più difficile. Eppure, si ride molto, in questo romanzo di Claire Jiménez, scrittrice statunitense cresciuta a Brooklyn e Staten Island, ma dalle chiare – e rimarcate – origini portoricane (tant’è vero che ha dato vita anche all’archivio digitale Puerto Rican Literature Project).
Il piccolo gineceo che fa da cuore pulsante al romanzo vincitore del Pen/Faulkner Award per la Narrativa 2024, è composto, in una gerarchizzazione che obbedisce chiaramente al matriarcato, da una madre portoricana, Dolores, con tutte le passioni e le contraddizioni del caso (tra cui le amate sedute in una di quelle chiese libere in cui non di rado si cade preda di deliri mistici), dalla figlia Nina (una laurea in tasca e zero prospettive – è impiegata da Mariposa’s, dove vende reggipetti e culotte, tenuta d’occhio da una capa vessatrice), da Jess (operatrice sociosanitaria e mamma, moglie di un «bianco» particolarmente accondiscendente) e dalla grande assente, attorno a cui ruota però tutto il romanzo: Ruthy Ramirez, figlia e sorellina ribelle dagli inconfondibili capelli rossi, scomparsa nel nulla a tredici anni.
L’assenza di Ruthy, sorella di mezzo mai rientrata al termine di un allenamento di atletica, si trasforma così in una presenza invisibile, intoccabile e insondabile che forgia e plasma in contumacia l’esistenza della madre e delle due sorelle a Staten Island.
Fino al giorno in cui, per uno di quei casi che solo la vita sa proporre, e in modo del tutto inaspettato, una delle due sorelle riconosce Ruthy in un reality trash, Catfight, dove alle ragazze partecipanti viene chiesto di dare il peggio di sé. Il format, infatti, prevede l’esclusione delle concorrenti a suon di sberle e di dispetti, in quella spettacolarizzazione della decadenza (e del nulla) che è tanto tipica della nostra epoca.
La rossa con il neo, per quanto sboccata e volgare, riconoscono le sorelle, deve essere per forza la loro piccola Ruthy, ed è finalmente giunta l’ora che ritorni a casa, in seno ai suoi affetti.
Nina e Jess a quel punto si ingegnano, all’insaputa della madre (in realtà più furba e perspicace di quanto le figlie vorrebbero credere) per organizzare un viaggio fuori dai confini di Staten Island che permetta loro di ritrovare la sorella perduta.
Nelle lunghe ore di preparazione, molte delle quali trascorse dalle due davanti alla tv per guardare in loop le puntate di Catfight in cui appare la presunta Ruthy, vengono messe in campo dinamiche famigliari, antichi non detti, ma soprattutto viene testimoniata la forza dirompente di quel legame – a tratti indissolubile – che è la famiglia: «Io e Jessica ci scambiammo uno sguardo tipo: E adesso che facciamo? In quella silenziosa lingua dei segni che fratelli e sorelle sviluppano dopo essere stati sfamati, abbracciati, vestiti e picchiati per decenni sotto lo stesso tetto».
Alla fine, quello che parte alla volta del recupero della sorella/figlia riconosciuta nel format TV è un gineceo molto agguerrito, cui si aggiunge anche una compaesana portoricana, appartenente alla stessa congregazione evangelica delle Ramirez: quattro moderne e determinate Thelma e Louise, decise a rimettere in ordine i cosiddetti «Family Matters», al di là di ogni steccato generazionale, religioso e identitario.
Non sempre l’unione fa la forza, e non sempre si riesce a ottenere l’unione: in questo libro però, per quanto male assemblate, quattro donne, legate anche da ciò che non le accomuna, si ritrovano a vicenda nel senso di sacrificio (alla base di ogni amore) oltre che nell’appartenenza a una delle mille diaspore che hanno reso gli Stati Uniti quello che sono – o che erano.
Grazie a una scrittura vivace, Claire Jiménez riempie le sue pagine di vita vera, di quotidianità agrodolce; ne risulta il ritratto profondamente umano di chi, per una vita intera, vive a cavallo tra due identità, nel tentativo di conservazione delle proprie radici, spesso in contrasto con il bisogno di integrazione che caratterizza ogni forma di migrazione.