Israele, perché restare?

by Claudia

Gli allarmi continuano e molti cittadini si sentono intrappolati

Contestualmente all’attacco a sorpresa, che la notte tra il 12 e il 13 giugno ha innescato un nuovo conflitto armato con l’Iran, Israele ha chiuso il proprio spazio areo impedendo decolli e atterraggi sino a data da determinare. Nonostante si tratti dell’attuazione di un piano preparato da tempo, le circostanze hanno costretto decine di migliaia di israeliani a prolungare la permanenza all’estero, mentre diplomatici e visitatori si sono trovati loro malgrado prigionieri nella pericolosa morsa di missili e droni. Nei giorni successivi, ambasciate e ministeri hanno cominciato a predisporre piani di evacuazione e rimpatrio, valutando anche la possibilità di tragitti via mare da Israele a Cipro. Agli israeliani invece, compresi quelli che detengono una seconda cittadinanza, non è stato formalmente concesso di lasciare il Paese e le autorità hanno sconsigliato di ricorrere a servizi clandestini o mezzi di fortuna, anche a fronte della pericolosità dell’attraversamento delle frontiere giordana ed egiziana. Eppure basta leggere i social per capire che non sono pochi i cittadini dello Stato ebraico che si sentono intrappolati, rammaricandosi di non aver lasciato la barca prima che affondi.

Già dalla salita al potere dell’ultimo Governo Netanyahu, un numero non indifferente di israeliani ha scelto la strada della «relocation» o comunque ha spostato capitali e acquistato immobili all’estero preoccupati dalle sorti del Paese governato da un gruppo di fanatici irresponsabili. Il peggioramento delle condizioni di vita in Israele in seguito al 7 ottobre non ha fatto che alimentare la ricerca di pace e di una qualità migliore di vita a prezzi più contenuti: le comunità di israeliani all’estero si vanno sempre più allargando. Il fenomeno è così massiccio all’interno della società ebraica che chi ne avrebbe la possibilità non può esimersi dal confrontarsi con l’interrogativo del perché rimanere. Alcuni restano per motivi religiosi, altri perché hanno i figli nell’esercito, altri ancora per prendere parte alle proteste contro il Governo nella speranza di contribuire a un cambiamento di rotta, molti scoraggiati dall’aumento vertiginoso degli episodi di antisemitismo in tutto il mondo, che portano al contrario non pochi ebrei della diaspora a scegliere di immigrare in Israele.

Negli ultimi tempi tuttavia, complice la chiusura dei cieli e la percezione di impotenza rispetto al drammatico incremento del pericolo rappresentato dalla risposta militare iraniana, l’angoscia di aver fatto la scelta sbagliata, sottovalutando la situazione, assale non poche persone. Sollecitata anche dalla preoccupazione di amici e parenti che chiamano dall’estero ansiosi per il nostro destino, nelle lunghe notti insonni trascorse nei rifugi tra una sirena e l’altra, mi risuonano nelle orecchie le parole del nonno che, disperato per la perdita dei suoi cari ad Auschwitz, ripeteva di aver cercato invano di convincere la sua famiglia e quella della nonna a lasciare Padova nel 1944… Rifletto anche sulla fuga dei miei bisnonni scappati da Odessa durante la Rivoluzione e sui racconti dei tanti amici scappati dai Paesi arabi negli anni dal ’48 al ’67, un intero repertorio di pericoli e fughe, lasciando le case con il minimo indispensabile per salvarsi la vita.

Eppure questa volta è diverso, doveva essere l’ultima stazione, pensavamo di essere arrivati a casa, e ora che la casa brucia, checché ne dicano gli slogan ottimisti della propaganda, lasciarla è troppo doloroso. Nella ricerca di una risposta sono incappata in una conversazione tenuta nel 2020 dallo scrittore David Grossman allo Shalem College nell’ambito della serie di incontri dal titolo La narrazione israeliana: «Dopo quello che è successo (in riferimento alla morte del figlio Uri), mi sono chiesto, ci siamo chiesti: dovremmo restare qui? (…) Io vivo qui perché per me è il luogo in cui la mia vita ha un senso a cui voglio aggrapparmi. Questo posto è per me rilevante come nessun altro. Qui, anche le cose che mi fanno impazzire diventano rilevanti per me, comprendo i codici che danno origine a tutta una serie di comportamenti che mi fanno andare in escandescenza… E non vorrei vivere da nessun’altra parte, perché voglio vivere in un posto per me significativo. Voglio che qui sia il futuro dei miei figli e dei miei nipoti, e voglio che questo posto sia la casa. Penso che nel corso degli anni la definizione di una persona ebrea e della collettività ebraica sia stata quella di qualcuno che non si è mai sentito a casa nel mondo. Anche nei luoghi amichevoli aleggiava sempre qualche ombra, qualche dubbio insieme alla possibilità di un rapido sradicamento e di una rapida espulsione o, Dio non voglia, di una distruzione. E Israele era destinato ad essere “la casa”, il luogo in cui ti senti al sicuro, dove hai risolto i tuoi rapporti con i vicini (…). Per me è difficile e doloroso che dopo oltre 72 anni di sovranità non abbiamo ancora raggiunto il punto in cui percepiamo davvero quello che dovrebbe essere il conforto di una persona all’interno della propria casa e si parla molto dei prezzi della situazione, della violenza e dell’occupazione. Ma c’è qualcosa che non siamo ancora riusciti a ottenere (…): essere a casa, percepire il conforto, il grado di sicurezza interiore. La tranquillità sapendo che vedrai dei figli per i tuoi figli, e loro vedranno figli e figli dei figli. (…) Da noi la terra trema sotto i piedi e le nostre angosce dettano le nostre vite. Ma la realtà non è fatta solo di ansie. A volte, le cose che facciamo e il modo in cui reagiamo a queste ansie possono anche cambiare la natura dei pericoli. (…) Se non faremo rapidamente qualcosa per cambiare la nostra situazione, essa diventerà molto brutta. E come persona a cui sta a cuore questo posto e che vuole che questo posto sia la mia casa, non posso permettermi il lusso di rinunciare al cambiamento».

In questi cinque anni le cose non solo non sono cambiate nella direzione auspicata da Grossman, ma sono estremamente peggiorate, così come la percezione di sicurezza si è deteriorata per tutti quelli che risiedono in Israele. Quello che invece non è mutato è il legittimo desiderio degli ebrei di appartenere ad un luogo, una necessità che non trova risposta nel resto del mondo al punto da giustificare, apparentemente, la sopportazione e la causa di tanta sofferenza per sé e per gli altri. Questo dolore è tuttavia anche una testimonianza di quella questione ebraica che l’Europa e l’Occidente non hanno mai saputo risolvere, ma solo dislocare, continuando di fatto a mettere a repentaglio la vita degli ebrei e di altri popoli. Minaccia nucleare o no, è necessario un urgente cambiamento di rotta e di mentalità, ma soprattutto servono soluzioni politiche e una nuova leadership sinceramente desiderosa di promuoverle.