Abbattere un regime e poi cambiarlo?
Regime change. Il termine è di moda. Ma cosa significa? Letteralmente, il cambio di regime in uno Stato che si considera nemico. La definizione si presta a diverse interpretazioni. Soprattutto negli Stati Uniti, dove intere generazioni di strateghi, politici, comunicatori e accademici si sono formate attorno a questo lemma. Cambiare un regime nemico vorrebbe dire disporne di uno considerato amico, o almeno non pericoloso, da installare al posto dell’uscente. E riuscire a imporlo allo Stato preso di mira o a ciò che ne resta. Di norma succede che si riesce a liquidare leader e Governo senza però sostituirlo con qualcuno di fiducia. Pensiamo a Miloševič in Jugoslavia/Serbia, Saddam Hussein in Iraq, Gheddafi in Libia, i talebani in Afghanistan. Nei primi tre casi i simboli del Male assoluto – per facilitarne l’eliminazione è bene paragonarlì a Hitler o Stalin – sono stati battuti e uccisi (sulla fine del leader serbo in carcere girano diverse versioni); nel quarto Trump e Biden hanno dovuto piegarsi al ritorno dei nemici al potere essendo falliti i tentativi di imporre una «testa di turco» (di americano) a Kabul. Se guerra e pressione combinata Usa-Israele produrranno il crollo del regime dei pasdaran, vedremo se ne deriverà una leadership iraniana disposta a collaborare con il Grande e il Piccolo Satana.
I regimi si abbattono, non si cambiano. Chi oggi li abbatte difficilmente ha il potere di scegliere e imporre al vinto un nuovo assetto consono ai propri interessi. Restando al caso americano – giacché Washington è titolare del marchio e protagonista dei massimi interventi di regime change – il problema è che gli Usa sono refrattari ad assumersi la responsabilità dei nemici sconfitti. Regime change sì, Nation building no. Di qui la deludente conclusione delle guerre minori o rilevanti combattute dagli Usa nell’ultimo mezzo secolo. Si dice regime change e si pratica regime killing. Il risultato netto può essere di almeno due tipi.
Nel primo caso, si abbatte la «testa del serpente» e con essa crolla il suo Stato. Vale per la Jugoslavia spacchettata in Stati (Croazia, Serbia e Slovenia), mini-Stati (Montenegro e Kosovo) o pseudo-Stati (Bosnie musulmana, croata e serba), in attesa di regolare i conti sempre provvisori nel prossimo giro di sparatorie balcaniche. Analoga situazione per l’Iraq, spartito in contendibili sfere di influenza, specie iraniana e turca. E per le Libie, dove Turchia e (meno) Russia si sono installate in Tripolitania e in Cirenaica, mentre le milizie si agitano per accaparrarsi risorse e terre nell’ex feudo di Gheddafi. Il ritorno dei talebani a Kabul non significa affatto il loro pieno controllo dello spazio afghano. Mentre facilita la penetrazione cinese, avversario massimo del Paese che vi ha prodotto il cambio di regime quale rappresaglia per l’11 settembre (non certo orchestrato dagli «studenti coranici» locali). Risultato: vinci il primo tempo, magari anche per sei a zero, poi perdi il secondo e il match per getto della spugna. Non un modello auspicabile. L’ascesa del secondo Trump molto deriva dai fallimenti seriali sopra accennati. E questo ci porta al secondo caso.
Nel quale al regime killing si accoppia una forma di regime change nella potenza che lo ha attuato. Oggi gli Stati Uniti sono investiti da un cambio di regime voluto e in parte già attuato dai trumpisti, che hanno profittato del fiasco della strategia neocon, titolare del marchio «cambio di regime», sviluppata in ambito democratico, culturalmente liberal, da Clinton in avanti. Possiamo considerare il nesso fra globalismo geoeconomico e avventurismo geopolitico quale premessa logica e fattuale della rinuncia di Trump all’americanizzazione del pianeta – via sequela di cambi di regime – per evitare la mondializzazione dell’America. Ovvero la sua fine per suicidio. Il cambio di regime negli Usa è in fase avanzata. Scaturisce dalla crisi di identità prodotta dal fallimento della globalizzazione e dalla stanchezza di impero che ne deriva. Gli americani non hanno voglia di avventure. E se saranno costretti a combattere, meglio usare anzitutto uomini e risorse altrui. Il che produce il rischio che i clienti usino il padrone. Ciò che sta accadendo nel conflitto Israele-Iran potrebbe diventare l’esempio massimo di tale tendenza. Con esiti difficilmente gestibili da chi si è fatto eleggere anche quale garante della rinuncia a combattere guerre altrui.
Ancora più netto il cambio di regime a Gerusalemme, mentre lo Stato ebraico cerca di produrlo a Teheran. Comunque finisca la guerra scatenata da Netanyahu, le fibre già logore della società e delle istituzioni israeliane stanno virando verso un caos autoritario, segregazionista e teocratico, dove si disputa sui confini che lo Stato dovrebbe ereditare dal Libro. Con relativo cambio di regime di vita delle diaspore ebraiche in giro per il mondo, per le quali teoricamente Israele dovrebbe garantire. Chi di regime change ferisce di regime change perisce? Forse no, ma a forza di provare a cambiare il mondo si finisce per cambiar sé stessi.