Quando il lavoro non basta per vivere

by Claudia

In Svizzera il tasso di povertà fra le persone attive è del 4,4% mentre si discute di salari minimi e CCL: a quali dare la precedenza?

Lavorare e guadagnarsi da vivere. È un patto sociale che non sempre è mantenuto. Neppure in Svizzera. Oltre 60 mila persone, benché abbiano un impiego fra l’85 e il 100%, sono considerate povere. Sono il 2,3% delle persone attive, secondo l’Ufficio federale di statistica o UST (la soglia di povertà è calcolata sulla base delle direttive della Conferenza svizzera delle istituzioni dell’azione sociale e nel 2023 ammontava a 2315 franchi al mese per una persona sola e 4051 per due adulti con due bambini). Potrebbe sembrare poco, ma immaginate: è come se tutta la città di Bienne fosse in questa condizione. Se poi estendessimo lo sguardo a tutte le persone con un impiego che sono a rischio povertà arriveremmo all’equivalente di Ginevra e Basilea messe assieme, parliamo di 336 mila persone. Vero, in quest’ultimo caso si tiene conto anche di lavoratrici e lavoratori con impieghi a percentuali ridotte, con orari irregolari o ancora con contratti a tempo determinato e che quindi non hanno lavorato continuativamente per l’intero anno.

Persone come Marie, madre single di una figlia, che ha raccontato la sua storia a «LeTemps». Un impiego all’80% nel Canton Vaud come parrucchiera, un salario di 3000 franchi al mese e la paura di ogni spesa straordinaria, di ogni piccolo incidente: come una visita dal dentista. E per pagare le vacanze, la necessità di fare qualche lavoro domestico in case altrui. La sua condizione e quella di tanti altri lavoratori è tornata d’attualità nelle scorse settimane in concomitanza con il dibattito in Parlamento sulla modifica di legge la quale sancisce che i contratti collettivi di lavoro (CCL) prevalgono sui salari minimi cantonali. Il fronte di centro-destra è rimasto compatto e il Nazionale ha accettato la modifica (la palla passa ora agli Stati). Lo ha fatto contro il parere del Consiglio federale e di 25 Cantoni su 26, i quali ritengono che un contratto privato (qual è un CCL) non possa e non debba avere la precedenza su una legge votata dal popolo. La questione comunque si pone al momento solo in due Cantoni: Ginevra e Neuchâtel. Negli altri che conoscono lo strumento del salario minimo (Basilea Città, Giura e Ticino), questo non viene applicato laddove c’è un CCL. Il salario minimo, va ricordato, è stato voluto dagli elettori come misura sociale proprio per far fronte proprio alla povertà dei lavoratori e per lottare contro il dumping salariale.

Chi in Parlamento ha sostenuto la modifica della legge non mette certo in dubbio che ci sia la necessità di intervenire in questi ambiti; ritiene però che centrale debba essere il dialogo fra imprenditori e sindacati. Quel partenariato sociale che in quasi cent’anni ha garantito la pace del lavoro, un valore questo che – rileva il Dizionario storico della Svizzera – ha plasmato la nostra identità nazionale. «Conosco le capacità negoziali dei sindacati», ha detto il capogruppo del Centro Mathias Bregy in aula. «Conosco le intense discussioni e confido che tutte le parti coinvolte (datori di lavoro, dipendenti e Governo) troveranno delle buone soluzioni; soluzioni che alla fine aiutino in particolare i dipendenti, ma che non indeboliscano i datori di lavoro al punto da non essere più finanziariamente sostenibili». In gioco non ci sono dunque solo i valori (democrazia e federalismo vs. partenariato sociale e pace del lavoro), per gli imprenditori c’è dell’altro. Qualcosa che è racchiuso nell’affermazione pronunciata nella sua audizione davanti alla commissione dell’economia dal direttore degli imprenditori svizzeri: «Un salario che garantisca la sussistenza non è compito dei datori di lavoro». È l’esplicita rottura del patto sociale, afferma indignata la maggioranza dei lettori del «Blick», il quotidiano che ha pubblicato la dichiarazione. Nei giorni successivi Roland A. Müller ha cercato di spiegare. La realtà – ha detto – è che ci sono delle imprese che proprio non possono pagare i salari minimi imposti da due Cantoni, se lo facessero metterebbero a rischio la loro stessa sopravvivenza.

Facciamo un esempio. Il CCL dei parrucchieri prevede per una persona senza formazione e al primo anno di impiego un salario di 3650 franchi, quello minimo del Canton Ginevra ammonta a circa 4000. Una bella differenza, ma bisogna tener presente che nei contratti collettivi sono disciplinati anche altri aspetti oltre alla paga: le vacanze, il riposo, la formazione continua o le condizioni di pensionamento. Resta però che, per le autorità ginevrine, con meno di 4000 franchi non si riesce a vivere e questo è un problema anche per le autorità. Sono infatti Cantone e Comuni a dover intervenire laddove il salario non è sufficiente. L’aiuto sociale è a carico loro. Chi ha sostenuto i CCL contro i salari minimi vede la situazione da una prospettiva diversa, Roland A. Müller al «Tages-Anzeiger» afferma che per i lavoratori poco formati e attivi in settori a basso reddito è meglio avere un lavoro che essere disoccupati ed è meglio anche per lo Stato, che altrimenti dovrebbe farsi carico delle loro necessità. Se questi impieghi sparissero, conclude, nessuno ne trarrebbe beneficio. Un argomento che è riecheggiato anche in Parlamento: il PLR Marcel Dobler ha affermato che questi impieghi permettono l’accesso al mondo del lavoro e quindi possono essere l’inizio di una spirale positiva di crescita individuale. D’accordo anche l’UDC Paolo Pamini: «Spesso chi percepisce un salario basso non lo riceve per tutta la vita, ma solo in una fase, per acquisire delle conoscenze. Pensiamo ai casi più estremi, gli stage non remunerati, con un salario minimo zero, che servono tuttavia alla persona per raccogliere esperienza».

Formazione, lavoro, esperienza sono fattori determinanti per sfuggire alla povertà, proprio per questo gli sforzi delle autorità si focalizzano da sempre su questi assi per venire in aiuto alle persone in difficoltà. Ed è vero che il tasso di povertà fra le persone con un qualsiasi tipo di attività professionale è del 4,4% (UST), circa la metà di quello della popolazione svizzera generale. Un tasso però che è sostanzialmente rimasto stabile nell’ultimo decennio così come quello del rischio di povertà delle persone con un’occupazione. Per alcuni, purtroppo, non sembrerebbero esserci ascensori sociali. Senza entrare nel dibattito politico in corso, torniamo al dato dal quale siamo partiti: alle tantissime persone che pur lavorando faticano a sbarcare il lunario. Persone poco formate, genitori soli, divorziati, piccoli lavoratori indipendenti, persone con un passato migratorio. La maggior parte non vive né a Ginevra né a Neuchâtel. Magari queste discussioni parlamentari riporteranno un po’ d’attenzione su tutti loro e con essa qualche inattesa soluzione ad un problema annoso e spesso dimenticato.