Vorrei contribuire a un dibattito sereno sulla questione dello schermo di Piazza Grande del Festival del film di Locarno, progettato dall’architetto Vacchini nel 1971 e che ora, stando alle comunicazioni della Direzione dell’evento, verrà rimpiazzato con nuovi non meglio precisati sistemi. Mi sono già espresso pubblicamente sulla vicenda e ribadisco la mia posizione: allontanare un simbolo equivale a colpire il cuore stesso di Locarno. Auspico un ripensamento poiché ritengo che la scelta di rinunciare al grande schermo di Vacchini possa essere infelice per l’identità culturale della città. È anche una questione di memoria collettiva che in questo modo viene sfregiata, così come l’immagine internazionale di Locarno.
Per questa ragione ho voluto scrivere una lettera al Municipio di Locarno, al Cda del Festival, allo Studio Vacchini architetti e al quotidiano «La Regione» con un messaggio chiarissimo: quel grande schermo non è solo un elemento tecnico, è un simbolo, un segno urbano che, «anche muto», parla della propria vocazione e riesce a coinvolgere l’intera città.
Vorrei ora proporre dalle colonne di «Azione» una riflessione aggiuntiva, che risale in realtà a un mio scritto del 1988 per l’allora «Quotidiano» di Silvano Toppi in cui ragionavo sulla dimensione sacra e profana del Festival locarnese. Osservavo, infatti, che proprio nel momento in cui si stava consolidando un complesso sistema di relazioni, di rapporti e di comunicazioni di tipo «elettronico» che avrebbe dovuto attenuare o addirittura rendere superflui i rapporti materiali e personali, la città fisica, la città costruita si riproponeva come luogo privilegiato, forse esclusivo, capace di rispondere al bisogno elementare dell’uomo di comunicare con altri uomini.
Quando discutiamo dello schermo di Vacchini è anche di questo che stiamo parlando: della città storica che con le sue strutture collettive (piazze e sagrati, parchi e viali, chiese e mercati) resta testimone di forme di associazioni che ci parlano dei bisogni e delle aspirazioni collettive. Il ricupero di questi spazi – scrivevo allora – sembra oggi naturale di fronte alle nuove forme di spiritualità (musica-concerti-spettacoli…) di fronte al nuovo «sacro» (perfino in tempi di guerra) che il meglio delle comunità di volta in volta tentano di costituire e di esplorare.
Osservavo, inoltre, che nel tempo della festa la città vive in stretta osmosi con il proprio Festival che, a sua volta si identifica nella città. A distanza di anni oso riproporre una selezione di quegli stessi concetti perché mi sembra possano ancora inquadrare il senso profondo del Festival costruito attorno alla piazza, e quindi allo storico schermo di Livio Vacchini.
Il momento massimo della «sagra» è celebrato la sera sulla piazza, all’imbrunire; nell’alternarsi dell’animazione che precede e segue ogni proiezione e dei momenti di coinvolgimento nei film, è lo spettatore che diviene il vero protagonista che nel ripetersi di un rito assapora e confronta l’infinito immaginario del messaggio con i limiti della realtà, di cui si sente parte. È la città tutta che vive con lo spettatore avvolto dagli oscuri silenzi vicini e confortato dai segnali di una vita che continua discreta dietro le quinte.
I vicoli che salgono verso la città vecchia, perpendicolari al grande vuoto della piazza, sono canali di storie e memorie che alimentano il grande catino appena socchiuso magistralmente dallo schermo, capace di offrire una chiave di lettura per l’intera città. L’andamento sinuoso del fronte costruito, (lì era il margine della riva) ci rimanda all’intera città storica retrostante, contrappunto a quella più recente dal tracciato geometrico verso valle. Ai piedi della collina, il rincorrersi dei portici aperti verso i giardini e il lago si offrono come propilei di ingresso, cordone ombelicale per la sosta, il ristoro, la preparazione alla cerimonia.
Il rapporto di dare-avere reciproco fra Festival e città è fruibile anche fisicamente. Non è possibile immergersi nel Festival, senza percorrere e abbracciare la città che a sua volta si dispone, si orienta, si proietta verso la rassegna. E poi, quel sentirsi, almeno per qualche istante, assieme a una più vasta comunità, per attendere e vivere i segnali, decifrare i messaggi e le contraddizioni di un immaginario annunciato. Tutto questo, rende la piazza un giudice impietoso.
Questo spazio è esigente, chiede «celebrazioni» autentiche, assume la forza e il rigore di un giudizio collettivo. Ognuno, per un attimo, è confrontato con sé stesso, circondato da altri uomini, protetto da mura che sono storia, uomo che si riscopre bambino, pronto a misurarsi fra i limiti di questa terra e l’immensità del cielo. È difficile trovare luogo più opportuno per poter cogliere e far proprio il messaggio proposto.
E mi pare rischioso per la città togliere la memoria di un passato recente già acquisito, privandola del suo schermo per sé stesso «fuori misura», genialmente ricercato, anche allora – nel 1971 – tra molti contrasti, da Livio Vacchini.
Piazza Grande, e lo schermo di Vacchini su cui dal 1971 sono sempre stati proiettati i film più significativi del Locarno Film Festival. (Manuela Mazzi, foto d’archivio)