Il tempietto del lago dei cigni a Monza

Nessun cigno, a prima vista, nel laghetto. Dove tre cigni, con tanto di mini pagoda-isola per le loro notti, si notano in una incisione del 1827 del duo Federico e Caroline Lose. Oltre a una barchetta con baldacchino e soprattutto, nel punto focale, su un dosso, tra gli alberi, il tempietto-belvedere. Follia architettonica tipica da giardino all’inglese che qui, per posizione, distanza, grazia, un non so che ancora da studiare meglio, un pomeriggio ai primi di luglio è da subito il fulcro magico del paesaggio. Opera di Giuseppe Piermarini (1734-1808): l’architetto della Scala innanzitutto ma anche allievo di Vanvitelli con cui collabora alla Reggia di Caserta, nonché autore della scaffalatura teatrale ammirata al volo quest’inverno alla Braidense, della Villa Reale qui a pochi passi e del resto di questo giardino all’inglese databile intorno al 1780. Desiderato dall’arciduca Ferdinando d’Asburgo, con lo zampino del conte Ercole Silva come vedremo, risulta essere il primo giardino all’inglese in Italia. E il tempietto dorico laggiù che rapisce lo sguardo dunque, la sua prima folly in assoluto.

Distratto da uno scroscio invisibile d’acqua e il suo scorrere tra le rocailles, abbandono le notizie storiche per vivere il momento di questo angolo di mondo all’interno del parco di Monza. Il più grande parco cintato d’Europa con tanto di autodromo e diverse curiosità, tra le quali il portale neogotico del serraglio dei cervi che un giorno magari tornerò a cercare per raccontarvelo. Tra le roccaglie di rilievo, intanto, trovo un percorso che scende indocile e degno di nota per finzione scenica tipo montagna. Come d’incanto, sono ai piedi della cascata in miniatura: l’illusione di un altrove alpestre dal gusto anglo-cinese è reale. La cascatella-gioco d’acqua oltre a stupire sul serio il passeggiatore, rinfresca un minimo. Rintontiti dai trentasei gradi, due tennisti seniores sono seduti lì davanti. Non lontano, scorgo l’antro di Polifemo. Capriccio d’ispirazione omerica che mi ricorda la piega corrucciata delle rocce nelle gole della Breggia, però qui è un’altra finzione fatta tutta con ceppo lombardo.

L’erba alta e l’incuria generale non mi disturbano, anzi, donano alla veduta un tocco di scapigliatura. Sopra il buco nella roccia contorta, dove Polifemo si addormenta stordito per via del vino dell’isola di Ismaro servitogli da Ulisse che così si salva la pelle, qualche quercia e dei pini. Uno scoiattolo spelacchiato, impigrito dal caldo, osserva il mio ritorno al laghetto noto come lago dei cigni. Boccheggiano pesci enormi, pesci rossi giganti girano incuranti. Tartarughe intorpidite, prendono il sole sulla riva. Facendo il giro, nascostissima, avvisto la grotta di Nettuno. In realtà, la scultura a pelo d’acqua, pensata per la visione da una barchetta come quella incisa dai Lose, raffigura, come divinità, il Lambro. Scavalco lo steccato e mi avventuro vicino alla grotta: accanto al Lambro – fiume dal quale attraverso una roggia arriva qui tutta l’acqua – ci sono due cavalli imbizzarriti-semisommersi. Mamma e figlia in vestiti a fiori parlano calme su una panchina.

Tra un’insenatura e l’altra arrivo al tempietto del Piermarini, pensato per le ninfe lacustri e posizionato un po’ come quello di Apollo e quello di Flora a Stourhead. Giardino all’inglese seminale del 1765 nel Wiltshire, visitato di sicuro nel viaggio dell’arciduca assieme a Ercole Silva, autore di un celebre trattato sull’arte dei giardini all’inglese incontrato già nei reportages scorsi. Tre scalini e sono tra le quattro colonne di granito del pronao, il resto è circolare e il tetto-cupola in coppi rincuoranti. Restaurato a modo qualche anno fa, l’intonaco con pigmenti puri color panna è maculato dai riflessi del sole tra le foglie. Le lesene sono tra il color tortora e il gelato alla nocciola. Butto un occhio dentro, il pavimento è di malto coccio pesto. Alle sue spalle c’è un cunicolo pseudosegreto che conduce al tempietto ipogeo conosciuto anche come tempio della luna. Una roggia-ruscelletto cintato da roccaglie porta l’acqua nel laghetto, cadendo con tre salti prima, così da provocare uno scroscio romantico. «Romeo si chiamava l’ultimo cigno del lago» mi dice una signora con barboncino. Un’oca dorme su un isolotto. Torno al punto di partenza. In lontananza, il tempietto, esprime un rapimento maggiore dello sguardo.

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