Dal popolo errante degli ebrei cacciati dalla loro terra nel 70 d.C. origina la comunità dei palestinesi istallatisi negli stessi luoghi dal 1948: un passaggio di consegne iniziato ben prima del Terzo Reich
Per ironia della storia, la diaspora palestinese (cominciata nel 1948) origina da un’altra diaspora (cominciata nel 70 d.C.): quella ebraica. In entrambi i casi non esiste, a rigore, alcuna colpa fondativa. Gli ebrei furono perseguitati dapprima in quanto monoteisti in un mondo prevalentemente politeista, poi in quanto popolo cosiddetto «deicida» («assassino di Gesù») per la discutibile connivenza tra il drappello di sacerdoti guidati da Caifa e le autorità romane e infine, nella modernità, perché gli ebrei – abilitati dal proprio credo all’usura verso i non ebrei, contrariamente a cristiani e musulmani – accumularono ricchezze straordinarie guadagnandosi così l’ostilità di un numero via via crescente di Gentili.
Tale incolpevole condizione socio-economica – unita a quel «minoritarismo elettivo» che li espose, in quanto popolo «prescelto» e non proselitista, a un isolamento sia culturale che fisico (il primo ghetto ebraico sorse in una fonderia di Venezia nel 1516) – scatenò quindi l’abominio delle Leggi razziali del 1938 dapprima e la strage (Shoah, letteralmente, da non confondere con Olocausto, che presuppone un «sacrificio» deliberato) dei campi di concentramento nazisti, con i 6 milioni di morti di cui sappiamo.
Ma le avvisaglie di un «passaggio di consegne», se è opportuno chiamarlo così, dalla diaspora ebraica a quella palestinese, cominciarono ad appalesarsi assai prima del genocidio perpetrato dal Terzo Reich. E trovarono nella nascita del movimento sionista di fine Ottocento (avviato al Congresso di Basilea del 1897 sotto la guida di Theodor Herzl) e nella Dichiarazione Balfour del 1917 (che esprimeva di fatto il favore della Gran Bretagna alla creazione di uno Stato d’Israele in Terra Santa) le condizioni politiche per una soluzione «nazionale» alla diaspora ebraica.
Senonché proprio nel periodo fondativo del movimento sionista venne delineandosi uno dei più tragici equivoci della modernità, che sancì un «diritto coloniale» sulla Palestina avulso da qualsiasi attenzione morale, culturale, etnica e religiosa nei confronti dei popoli che l’abitavano. Per voce non solo di sionisti ebrei, ma persino di sionisti cristiani quali Thomas Brightman, venne infatti siglato uno slogan (oggi ancora tragicamente attuale) attraverso il quale si denegava alla radice l’esistenza (o persino il diritto all’esistenza) di una popolazione palestinese: «Una terra senza popolo per un popolo senza terra». Con questo appello sottintendendo – in una spregiudicata rimozione della realtà – che la diaspora ebraica avrebbe potuto trovare il proprio sollievo senza ingenerare una conseguente diaspora palestinese.
In questo drammatico «equivoco», demografico e geografico, si è consumato il passaggio cruciale tra le due diaspore. Quando, nel 1948 – dopo aver scartato i sionisti, a seguito di infiniti dibattiti, l’ipotesi di fondare uno Stato ebraico in terra africana o asiatica – venne sancita la nascita di Israele nel cuore della Palestina araba, si inaugurò di fatto uno slittamento mai più ricompostosi: quello che avrebbe portato le «vittime» storiche della persecuzione a consegnare la palma ai palestinesi, i quali, secondo le parole di Roger Garaudy, si sarebbero così presentati da allora come «vittime delle vittime».
Eppure quella «terra senza popolo» non era affatto una terra senza popolo. Protettorato britannico dal 1920 al 1948 – dopo essere stata provincia ottomana fino al crollo della Sublime Porta nell’ottobre del 1918 – il territorio che dalle alture del Golan, lungo il Mediterraneo, scende fino a Gaza e ai confini con la penisola del Sinai, era uno sterminato consesso umano, il quale, se non godeva dello statuto di «nazione» o di «paese» come l’Egitto, il Libano o la Siria circostanti, certamente tutto era tranne una terra di nessuno. E nel 1948 (ancora oggi designato dagli arabi come Nakba o «Catastrofe») contava una popolazione di 1 milione di arabi musulmani e di 150mila arabi cristiani (contro 700mila ebrei). Popolazione che da quella data in poi, con il progressivo allargamento degli insediamenti coloniali ebraici in Palestina (v. mappa) ha conosciuto una delle più impressionanti serie di diaspore della storia contemporanea.
È quindi proprio a partire dal 1948, dalla Nakba, che l’estensione del «colonialismo» ebraico in Palestina – ideale fine della diaspora del Popolo Eletto – ha sancito la progressiva decurtazione della popolazione locale – concreto inizio della diaspora del Popolo Negletto. Una diaspora (in arabo Naksa) che si dispiega in altrettante fasi quante sono state le «guerre» asimmetriche tra Israele e Palestina, ognuna delle quali ha determinato esodi, sovraffollamenti nei campi profughi, esilio e fuga.
Dopo la guerra civile del ’47-’48, che siglò la fine del mandato britannico, e a seguire nel conflitto arabo-israeliano del ’49, oltre 700mila arabi palestinesi vennero direttamente o indirettamente espulsi dai propri villaggi – in ottemperanza al principio sionista del «trasferimento ineluttabile», promosso e realizzato dalle milizie della Haganah e dell’Irgun – dando corpo alla prima ondata migratoria della loro storia e inaugurando un mai applicato «diritto al ritorno» (Risoluzione 194 delle Nazioni Unite). Molti trovarono rifugio nella neonata Cisgiordania, ottenendo la cittadinanza, molti altri si dispersero nei Paesi arabi e in diverse altre nazioni del pianeta.
Con la Guerra dei Sei Giorni del 1967, circa 650mila palestinesi trovarono poi rifugio in Giordania, dove i guerriglieri di Al Fatah muovevano le loro azioni di rappresaglia ai confini con Israele. Ma l’instabilità prodotta all’interno del Paese da questo «Stato nello Stato» che era diventato il corpo di miliziani di Al Fatah indusse re Hussein a scatenare nel Settembre («Nero») del 1970 una guerra civile contro i palestinesi, determinando una nuova ondata di esodi: non da ultimo in Libano, dove tale ennesima migrazione forzata diede avvio, nel 1975, alla prima guerra civile.
Da quel periodo in avanti i profughi palestinesi non hanno fatto che aumentare. Oggi se ne contano in totale 7 milioni in tutto il mondo, ovvero, secondo le stime dell’UNRWA, circa il 70% dell’intero popolo palestinese e circa un terzo di tutti i rifugiati del pianeta.
Una cifra che fa il paio con dati ancora più impressionanti: circa 700mila rifugiati «registrati» nei campi dei cosiddetti «Paesi ospitanti» (Libano in primo luogo), circa 500mila negli 8 campi della Striscia di Gaza, circa 200mila nei 19 campi distribuiti tra Cisgiordania e Gerusalemme Est.
Una diaspora che nasce, come detto, da un’altra diaspora. Ma alla quale il Diritto Internazionale non sembra offrire, da quasi ottant’anni, se non speranze di procotollo. Le risoluzioni dell’Onu (a partire dalla famigerata Risoluzione 194) venendo sistematicamente disattese, l’Articolo 13 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo («Ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi Paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio Paese») restando lettera morta, e il Comitato delle Nazioni Unite per l’Eliminazione della Discriminazione Razziale (Articoli 5 e 18) non sapendo agire sulle politiche coloniali di Israele in nessuna forma realmente risolutiva.
Con il tragico risultato, dilatatosi a dismisura a partire dal 7 ottobre 2023, di costringere il mondo a chiedersi se l’impotenza (o quella che Gramsci stigmatizzava come «indifferenza») non sia un atteggiamento colpevolmente deliberato.