La «capannara» dell’Artico

Spiegando il suo lavoro a Ny-Ålesund, la biologa Tessa Viglezio si lascia sfuggire il termine «casa» per descrivere la base artica italiana. La sua casa del Nord si trova a 78°55’N, nell’arcipelago delle Svalbard, territorio d’oltremare della Norvegia. Non ha un indirizzo, ma un nome sì: Dirigibile Italia. La base di ricerca deve il suo nome alle spedizioni organizzate dall’esploratore italiano Umberto Nobile, che insieme al norvegese Roald Amundsen nel 1928 sorvolò per la prima volta il Polo Nord.

Ny-Ålesund nasce come villaggio di minatori, in un territorio dove la vita, nella sua testardaggine, d’inverno si lascia difficilmente distinguere nel bianco manto della neve. Penne bianche per quelli che vengono scherzosamente chiamati polli delle nevi – e che stupisce non vedere surgelati per natura – pelliccia bianca per le volpi artiche, che d’estate mutano il pelo per confondersi nella tundra che si spoglia della neve. Bianco anche l’orso polare, naturalmente. Occorre avere un occhio allenato per distinguere il suo profilo nel candore dei ghiacci. Colorate, invece, sono le costruzioni che costituiscono il villaggio e che ospitano ricercatori provenienti da ogni parte del mondo. Le attività di estrazione del carbone, iniziate a Ny-Ålesund nel 1920, cessarono nel 1963 poiché il costo in vite umane era troppo alto. Fu nell’inverno dal ’64 al ’65 che un gruppo di quattro ricercatori superò l’inverno in una delle baracche abbandonate dai minatori. Iniziò così la nuova storia, all’insegna della ricerca scientifica, di questo piccolo insediamento nell’estremo Nord. Qui l’Istituto di Scienze Polari del Consiglio Nazionale delle Ricerche italiano gestisce la base artica, in cui la biologa ha passato le sue giornate più lunghe, quando il sole non cala mai sotto l’orizzonte. Questa storia va declinata al passato, poiché Tessa Viglezio ha terminato il suo lavoro nel circolo polare artico ed è tornata in Ticino, lasciando nel territorio delle aurore boreali e delle distese incontaminate di neve un pezzo del suo cuore.

L’occasione dello Swiss Artic Project

Ticinese di origine, artica d’adozione, Tessa Viglezio si è innamorata dell’estremo Nord in occasione dello Swiss Arctic Project. «Sono sempre stata una persona a cui piacciono di più il freddo e la montagna, rispetto al caldo e al mare. Nel 2018 mi sono iscritta a questo progetto di comunicazione, in cui si andava tre settimane nell’Artico. Ma non mi sono iscritta perché era l’Artico, mi sono iscritta perché era un’avventura. Dal momento in cui ci ho messo piede, ho sentito qualcosa. Non posso dire come mi sono innamorata di questi luoghi, so solo dire che è successo. L’Artico è il mio posto, mi sento a casa».

Nel 2018 stava studiando biologia all’Università di Neuchâtel, «l’obiettivo era studiare il comportamento animale seguendo un master a Zurigo, ma poi ho preso parte allo Swiss Arctic Project». Un viaggio che ha sconvolto i suoi piani. «Per tornare alle Svalbard ho fatto un master in Olanda, all’Università di Groninga – racconta – così a Ny-Ålesund ho studiato la muta delle penne delle oche faccia bianca, in relazione all’aumento delle temperature».

Oggi Tessa Viglezio ha 28 anni e ancora sete d’avventura, dopo l’esperienza nel circolo polare artico. «Essere responsabile della stazione di ricerca non è evidente», sottolinea dopo aver svolto questo lavoro per due anni. «Siamo isolati, abbiamo risorse limitate. Se si rompe qualcosa bisogna ripararlo con quello che c’è. Il clima è estremo, non solo rispetto alla luce e al buio durante l’anno, ma anche per le temperature rigide».

Il suo lavoro nel circolo polare artico consisteva anche nella gestione del laboratorio atmosferico «Gruvebadet», dove ci sono diverse strumentazioni che aveva il compito di monitorare. Ad esempio, cambiava i filtri che misurano la presenza di particolato nell’atmosfera, spedendoli poi ai ricercatori che ne ricavano i dati. Un lavoro svolto in condizioni estreme. Anche d’inverno, quando con il buio usciva sul tetto della stazione meteorologica per recuperare i filtri. Senza perdere tempo a indossare la sua calda giacca a prova di venti artici. Essere efficienti è fondamentale per Tessa Viglezio.

Il sole ha fatto capolino alle Svalbard per la prima volta il 7 marzo, quest’anno. Durante questo mese di profondi cambiamenti, le giornate si allungano a ogni alba e tramonto, e il vento primaverile sferza la neve soffiandola con veemenza sulle facciate delle poche case di Ny-Ålesund. Case/basi scientifiche, s’intende. Le temperature vanno dai – 10°C ai – 20°C, ma la temperatura percepita è più bassa a causa del vento, che sembra portarsi via le guance e il naso. Qui è incredibile constatare la perfetta progettazione del corpo umano: nessun senso di congelamento agli occhi, ben protetti dalle palpebre, dalla circolazione sanguigna e dalle lacrime. Sì, l’Artico fa piangere, non solo il giorno in cui lo si lascia.

È particolare il rumore che si diffonde per le strade di Ny-Ålesund. Il suono dei ramponi che calpestano i ghiacci si diffonde nel silenzio artico fra le mura delle case, per poi disperdersi in lontananza nel biancore. Le auto che passano risuonano come degli aerei, con i loro pneumatici chiodati che mordono la coltre di ghiaccio. Ghiaccio che dovrebbe essere neve, spiega la ex responsabile della base artica italiana. L’inverno boreale appena trascorso è stato il secondo più caldo mai registrato, scrive MeteoSvizzera citando i dati del servizio europeo Copernicus. Tessa era nell’Artico e racconta: «Per metà dei 28 giorni di febbraio le temperature sono state al di sopra dello zero. Febbraio e marzo sono normalmente i mesi più freddi dell’anno, con temperature intorno ai – 20°C. Avere 2°C per due settimane su quattro è anomalo. Ho visto cadere la pioggia in un momento dell’anno in cui non cade mai. Abbiamo misurato altezze nevose che troviamo solitamente nei mesi di maggio e giugno». 13 centimetri di ghiaccio nascosti sotto 16 centimetri di neve, come sono stati misurati, rappresentano un problema per la fauna. «La pioggia è più pesante della neve e si infiltra al di sotto. Le temperature non rimangono a lungo sopra lo zero, quindi questa pioggia diventa una lastra ghiacciata, che rende impossibile alle renne nutrirsi. D’inverno questi animali scavano la neve con lo zoccolo per raggiungere i licheni. Ma non riescono a spaccare il ghiaccio e rischiano di morire di fame», spiega Tessa. «Quello che mi porto a casa da Ny-Ålesund, è che i miei gesti e le mie scelte non hanno solo conseguenze per me. Il fatto che l’uomo produca delle emissioni in quantità insostenibile ha effetto sull’Artico, che ha a sua volta effetto su un ecosistema vicino».

«Qui bisogna essere molto flessibili», continua Tessa nel suo racconto. «Si dipende molto dal tempo meteorologico. Il vento primaverile non permette di fare determinati lavori sul campo, e non bisogna dimenticare che ci sono gli orsi polari. C’è sempre la possibilità di incontrarne uno. Il lavoro che viene svolto al di fuori di un edificio dipende da tantissimi fattori».

Garantire l’incolumità dei ricercatori

A partire da febbraio cominciano ad arrivare i ricercatori sull’isola. Coloro che vengono ospitati a Dirigibile Italia venivano accolti da Tessa. Il suo lavoro consisteva nell’accompagnarli durante le ricerche, assicurando la loro incolumità. Le prime istruzioni che Tessa ha sempre fornito all’arrivo degli scienziati, riguardano la sicurezza. Il perimetro di Ny-Ålesund è delimitato da cartelli che segnalano la presenza dell’orso polare e impongono il divieto di allontanarsi senza adeguate protezioni. Ossia un fucile o l’essere accompagnati da qualcuno con un fucile e sia in grado di utilizzarlo. Ogni porta di casa è aperta, e la porta si apre tirandola verso di sé, gesto che un orso polare non è in grado di fare. Ogni automobile è accessibile e le chiavi di avviamento sono già inserite. Non basta rifugiarsi nell’auto, nel caso di incontro ravvicinato: meglio accendere il motore e allontanarsi. I ricercatori sono consapevoli di essere degli ospiti nella casa dell’orso polare.

Ogni giorno vi sono due responsabili designati alle emergenze, raggiungibili attraverso un numero di telefono componibile da ogni casa, oppure dalla radiotrasmittente che ogni responsabile di base artica ha con sé. Se viene localizzato un orso polare, la notizia viene diffusa e vige il divieto di avvicinarsi a quella zona. Gli avvistamenti sono piuttosto rari e difficilmente un orso entra a Ny-Ålesund.

«Accogliere i ricercatori significava occuparmi delle loro necessità», spiega la biologa. «Procurare loro le motoslitte di cui potevano avere bisogno, fare la guardia all’orso se durante le loro ricerche erano troppo impegnati per prestare la dovuta attenzione all’ambiente circostante. E poi, naturalmente, ospitarli. Quando i ricercatori si trovano in base hanno accesso anche alle stanze dedicate al tempo libero, ossia il salotto con la piccola cucina. Mi sentivo un po’ una capannara dell’Artico», dice sorridendo. Il suo lavoro variava dall’accoglienza, alla logistica, alla gestione tecnica, alla manutenzione. «Quando sono arrivata a Ny-Ålesund non sapevo cambiare una lampadina. Ora sono in grado di aggiustare un campionatore, so cosa sono i rotori di una pompa. Con l’arte di arrangiarsi svalbardiana, ho imparato tantissimo».

Una comunità di trenta persone

Ciò che più mancherà a Tessa, di queste terre candide d’inverno e brulle d’estate, è la compagnia. Parliamo di un luogo dove in inverno stazionano permanentemente solo una trentina di persone, che raggiungono il centinaio durante l’estate. Una compagnia, quindi, composta da un nucleo di persone molto ristretto, ma proprio per questo significativo. Ny-Ålesund potrebbe ricordare quei paesaggi natalizi all’interno di una boccia di neve. I contatti verso l’esterno sono effimeri, mentre quelli con chi si incontra quotidianamente, sono decisamente molto importanti. «Ci sono tantissime nazionalità che convivono – spiega Tessa – si è insieme almeno tre volte al giorno per i pasti, si ha occasione di conoscere culture che sono molto diverse tra loro, la mente si apre, e c’è una microsocietà che ti fa cambiare la tua percezione della vita. Sull’isola ci sono molti meno bisogni rispetto al continente». In questo territorio gestito dalla King’s Bay AS, società norvegese che a suo tempo gestiva l’estrazione mineraria e oggi accoglie gli scienziati, troviamo infatti un solo negozietto, aperto un’ora il lunedì e un’ora il giovedì. Un bar esiste ed è attivo solo durante i mesi estivi. «Il fatto che qui manchino molte cose, ti fa capire come in realtà neanche nel continente hai bisogno di tutta questa scelta. Qui è importante sopravvivere, mangiare e dormire», sottolinea la biologa. L’attenzione e la cura per l’essenziale, sono aspetti che la biologa cerca di portare con sé lasciando le isole Svalbard ma, riconosce, «presto si torna ad abituarsi alle necessità, ai bisogni e ai servizi che ci sono nel continente».

Tessa Viglezio, che non desidera fare la ricercatrice in senso accademico, resta una ricercatrice nel suo animo avventuriero, capace di addentrarsi in territori meravigliosamente inospitali, praticamente inabitati, eppure ricchi di umanità.

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