La pace? Tante parole e zero fatti

Ottimismo e impazienza sulla pace in Medioriente, ma, mentre scriviamo queste righe e viene stampato il giornale, a israeliani e palestinesi il traguardo sembra ancora molto lontano. A Doha la delegazione israeliana non dispone di un mandato decisionale e i mediatori fanno capire che se le trattative continueranno ad essere arenate si rischia di perdere la motivazione. Negli ultimi giorni maggiori consensi sono stati raggiunti sulla questione delle modalità di distribuzione degli aiuti umanitari e dell’ingresso di finanziamenti per la ricostruzione di Gaza, tuttavia fonti israeliane e palestinesi mettono le mani avanti. Nonostante le pressioni di Trump, infatti, Netanyahu continua a sabotare l’accordo con Hamas e sembra intenzionato a protrarre la guerra sacrificando giovani soldati di leva e riservisti solo per salvarsi la poltrona, facendo lo slalom tra il processo a suo carico e lo scandalo del Qatargate. Quella che potrebbe sembrare un’opportunità storica si sta nuovamente trasformando in una tortura, e non solo per i civili di Gaza che pagano il prezzo più alto in termini di vite umane e condizioni esistenziali.

La scelta di un rilascio parziale e graduale degli ostaggi (si parla di circa 10 ostaggi vivi e 18 morti, in cambio di prigionieri palestinesi, nell’arco di 60 giorni), benché il report sulle presunte condizioni psicofisiche degli ostaggi sia agghiacciante, si traduce nell’ennesima selezione che esaspera le famiglie degli ostaggi le quali, esauste, supplicano di procedere ad un accordo che preveda un unico scambio. Anche l’insistenza sul controllo israeliano del corridoio Morag è indice della volontà di Israele di mantenere il controllo di Gaza invece di lasciarne la reggenza a terzi. Netanyahu non prende il rischio di inimicarsi la destra sionista che sogna di ricolonizzare la Striscia e cerca di procrastinare fino alla chiusura estiva della Knesset e dei tribunali che gli garantirà tre mesi di «tregua personale» nei quali è previsto che non possa cadere il Governo. Anche la cronaca delle visite di Netanyahu alla Casa Bianca la scorsa settimana assume i contorni di una satira di cattivo gusto, a cominciare dalla lettera «omaggio» con la quale il premier israeliano, accusato di crimini di guerra, propone la designazione del presidente Usa quale candidato al Nobel per la pace. Una pace singolare dal momento che dalle conversazioni tra i due capi di Stato emergono temi quali i campi di concentramento «umanitari» e le espulsioni o i trasferimenti obbligati di parte della popolazione palestinese della Striscia.

Gli israeliani tuttavia continuano a rimandare il confronto con gli orrori di Gaza, occupati come sono a gestire la crisi interna che peggiora di mese in mese. All’euforia che aveva accompagnato i primi giorni dell’attacco a sorpresa all’Iran è subentrata l’amarezza per le menzogne di Netanyahu che ammette di non aver sradicato la minaccia nucleare. Intanto, i malcapitati che hanno perduto le abitazioni distrutte dai missili iraniani vanno ad ingrossare le fila degli sfollati del Sud e del Nord e dormono provvisoriamente negli alberghi, costretti a recarsi al lavoro senza che lo Stato riesca a farsi carico di loro. La salute mentale è sempre la prima a fare le spese dell’incompetenza delle istituzioni, le tempistiche per ricevere cure psichiatriche sono infinite e i suicidi tra soldati e superstiti sono sempre più frequenti. Inoltre, il peso che grava sui riservisti è tale che alcuni si procura[1]no volontariamente delle fratture per ottenere la dispensa. Anche la famigerata riforma giudiziaria galoppa, continuando a prendere di mira il potere giudiziario, dal presidente della Corte Suprema Yitzhak Amit, alla procuratrice Gali Baharav-Miara. Nuove proposte di legge chiedono l’eliminazione della commissione per la nomina dei vertici dei servizi e dell’esercito, o l’annullamento dei gradi dei dissidenti, mentre è previsto un budget di 140 milioni di Shekel per tener buoni gli ultraortodossi ai quali Netanyahu non riesce ancora a garantire l’auspicata esenzione dal servizio di leva obbligatorio.

Sullo sfondo di una guerra politica e priva di scopo proseguono le scorribande dei giovani coloni delle colline che portano alla cancellazione di intere comunità palestinesi. E restando in Cisgiordania nelle politiche israeliane di frammentazione e del divide et impera rispetto alle diverse autorità palestinesi si inserisce anche la proposta formulata dagli sceicchi di Hebron di istituire un emirato indipendente da un possibile Stato Palestinese. Non ultimo una nuova ombra grava sulla fragilissima democrazia israeliana, ovvero l’allontanamento di Ayman Odeh, leader della lista unita arabo-israeliana Hadash. Accusato di incitazione al terrorismo per un post sui social, Odeh è stato preso di mira persino dal capo dell’opposizione Yair Lapid che non mostra alcuna vergogna nel sostenere le deplorevoli politiche di esclusione dei partiti arabi dal Governo perseguite dall’estrema destra. Se l’espulsione di Ayman Odeh verrà confermata dal voto della Knesset la strada verso l’etnocrazia con derive autoritarie si fa sempre più breve.

Related posts

La voce del silenzio

Oriente contro Occidente

Quell’America che si avvita su sé stessa