Per dieci anni consecutivi, fino a metà giugno del 2025, Markus Poschner ha diretto l’Orchestra della Svizzera italiana, in un’avventura che le ha dato lustro e l’ha spesso portata a contatto diretto con il pubblico. La vita d’ora in poi porterà il Maestro tedesco (classe 1971) in luoghi nuovi. All’orizzonte, infatti, oltre al podio dell’Orchestra sinfonica di Basilea (di cui sarà dirigente stabile), ci sono anche Vienna e gli Stati Uniti, in quella che è un’esistenza che si gioca su più fronti, seppure nella continuità e nel solco della musica classica e della sua diffusione nel mondo.
Markus Poschner, i numerosi impegni che l’attendono prevedono molti spostamenti. Da una parte lei si muove da solo da un luogo all’altro, dall’altra si confronta con le prove e i concerti, dove è circondato dai suoi musicisti e dal pubblico. In tutto ciò esiste la solitudine del maestro?
Credo che nella musica e nell’arte più in generale, ci si ritrovi spesso soli, poiché si tratta di un’eterna ricerca e di un confronto con sé stessi. Noi musicisti ci alleniamo sulle partiture e studiamo per una continua ricerca di bellezza e verità. Il tema della verità è molto misterioso, e a volte non sappiamo nemmeno cosa stiamo cercando, anche se forse, da qualche parte, intuiamo che in fondo cerchiamo unicamente noi stessi. La verità si trova alla fine del nostro cammino esistenziale, ma sappiamo sin d’ora come sia impossibile arrivare a destinazione. È forse questa la solitudine con cui ognuno deve scendere a patti. Nel mio caso esiste anche una «solitudine tecnica», ad esempio quando sono in viaggio e soggiorno in albergo, e le mie giornate sono impegnate dalle prove. In quei momenti, però, sono talmente immerso nel mio lavoro e nelle mie partiture da finire in una specie di tunnel e non farmi più alcun pensiero sulla solitudine.
Non le risulta difficile vivere un’esistenza così fittamente programmata?
È una cosa cui ci si abitua. Non è facile vivere spesso lontani dalla propria famiglia, ma per quanto riguarda i miei frequenti spostamenti, devo molto alla mia agenzia, che si occupa di progettare i viaggi nei minimi dettagli, permettendomi così di non perdere la concentrazione necessaria al mio lavoro.
Lei vive anche una doppia cesura, fisica, per quel che riguarda la sua famiglia, e psicologica per la concentrazione richiesta dallo studio.
Ogni tanto i miei tre figli mi fanno notare come io non sia davvero presente, sebbene fisicamente sia con loro, ma in fondo questo è il destino di chi lavora in campo artistico: gli orari non sono regolamentati, e soprattutto la creatività non ne conosce. A volte le idee migliori mi vengono alle 23 o mentre gioco a scacchi o a calcio con i miei figli. Ciò che è complicato e richiede molta disciplina, ma è necessario: occorre separarsi in determinati momenti dai dispositivi elettronici, eliminando la propria raggiungibilità.
Lei questa disciplina ce l’ha sempre?
Vorrei poter dire di sì, ma a volte ce l’ho e altre meno, anche perché ci sono momenti in cui i progetti si accavallano e occorre riuscire a coordinarli, o ci sono questioni urgenti da risolvere, che possono riguardare un solista o un programma. Purtroppo, a volte succede che sono al campo di calcio con i miei figli e passo il tempo al telefono.
A livello artistico la multidisciplinarietà è un concetto di cui si sente parlare sempre più spesso: le contaminazioni sono benvenute e possono portare a nuovi approcci. Come vive la multidisciplinarietà nel mondo della musica?
Noi viviamo in un mondo aperto. Se ci muoviamo con gli occhi e le orecchie aperti e, soprattutto, entriamo in contatto con altri esseri umani e altri punti di vista, possiamo trovare una grande fonte di ispirazione. L’ispirazione, infatti, è strettamente collegata a una risonanza (un’eco), e si manifesta nel momento in cui entriamo in contatto con qualcosa che ci è estraneo. Personalmente credo molto in questa cosa e cerco sempre di dimostrarla, specialmente ai bambini, grazie ai programmi educazionali. Amo ripetere come non si debba avere paura di ciò che non si conosce, perché è proprio lì che si trovano le migliori possibilità e fonti di ispirazione per sé stessi. La paura o l’attaccamento alla comfort zone spingono molte persone a mangiare sempre nello stesso posto o ad ascoltare la stessa musica, ma è importante cercare ciò che è diverso, sconosciuto.
Oggi purtroppo ognuno vive nella propria bolla, che diventa una specie di cassa di risonanza. Ma così si finisce per sentire solo la propria opinione in loop, perdendo il contatto con chi la pensa diversamente, fino al punto in cui si finisce per limitarsi a farsi la guerra a vicenda. Tutto ciò è molto pericoloso.
Quali sono gli ambiti che ama, oltre alla musica?
Amo i musei perché adoro i quadri, ma anche l’architettura, gli edifici antichi. E poi sono sempre appassionato di jazz. Credo che i diversi generi musicali siano come i dialetti di una stessa lingua.
In questo particolare e delicato momento storico la musica ha dunque un valore ancora più grande?
Ne sono convinto. Le istituzioni culturali diventeranno sempre più importanti. Dal periodo del Covid noi (e per noi intendo l’orchestra, il management eccetera) concepiamo il nostro lavoro in modo diverso: abbiamo compreso la nostra importanza per la comunità, poiché rappresentiamo un luogo di incontro. Quello che offriamo è un luogo aperto, dove si possono conoscere cose nuove, ma dove, soprattutto, si riesca a sentire la comunità.
Il pubblico è sempre casuale e mai ripetibile. L’ambiente cambia sempre, di concerto in concerto, e io sento perfettamente quando il pubblico è toccato dalla musica, quando ne viene catturato. Il concerto è un momento in cui si incontrano persone che non hanno mai avuto nulla a che fare le une con le altre, e nell’istante in cui si siedono in sala, passaporto, religione e nazionalità non hanno più alcuna importanza. Nel momento in cui inizia la musica, il pubblico si trasforma in una comunione di fede, passatemi il termine spirituale, di colpo si diventa davvero sorelle e fratelli. Questo aspetto a mio avviso lambisce la religiosità.
In fondo, come la religione, anche il concerto segue determinati rituali…
Certo, ed è un rituale che è rimasto lo stesso per migliaia di anni. Un tempo ci si radunava intorno a un fuoco, si narrava e danzava, e in quel momento si diventava una comunità. È proprio quel senso di comunità che ha agevolato il progresso dell’umanità. A mio avviso è questo il ruolo della cultura, ma per «cultura» intendo anche le sottoculture, come lo sono ad esempio lo sport, ristoranti, bar e club, che sono tutti collanti della società e riflettono il nostro essere umani. L’arte, dal canto suo, simboleggia il mondo non visibile, interiore, che si contrappone, o approfondisce quello che comunichiamo quotidianamente attraverso la lingua o i simboli codificati, come un semaforo o un emoji. Attraverso l’arte, e forse la musica in particolare – poiché non richiede una decodificazione – si può raggiungere il cuore per via diretta, penetrando nel proprio mondo interiore. La musica può aiutarci a capire noi stessi.
E in qualche modo la musica è anche democratica, poiché non è «contenuta» da nessuna parte, né un libro né un museo.
È vero, quando si legge un libro si deve capirne il significato, ma questo porta anche al grande malinteso intorno alla musica: molti sono ancora convinti che per capire ad esempio Beethoven sia necessario studiarlo. Ma non c’è niente da capire, non c’è un giusto o uno sbagliato, basta sedersi e ascoltare. Ciò che è necessario è il tempo, superiore a quello che serve per guardare un reel o leggere un messaggino. Inoltre, queste opere non sono fatte per essere capite al primo tentativo, dunque sono necessari più ascolti. La complessità di queste opere è grande, su questo sono d’accordo, ma in realtà essa ha a che fare con la nostra complessità interiore.
In quest’epoca di rottura (disruption), di crisi, tendiamo sempre a cercare delle risposte facili. Pensiamo per un attimo al mondo della politica: in molti desiderano una specie di «Führer», un solo uomo-guida in grado di risolvere tutto, una sorta di padre, in quello che è ancora un modello patriarcale. La storia ci ha insegnato come la delega di responsabilità a un numero esiguo di persone, a una specie di élite, sia sempre molto pericolosa. Per questo credo che noi attori culturali non abbiamo solo un ruolo di intrattenitori o di dispensatori di momenti di leggerezza, ma dobbiamo occuparci anche di educazione. E, in fondo, ogni concerto è anche una forma di educazione. È importante catturare l’attenzione delle persone e investire in questo processo.
Maestro Poschner, lei studia a tavolino ogni istante di cui è composta la partitura. Resta ancora spazio per l’istinto in un processo così minuzioso?
Istinto e spontaneità devono essere sempre presenti, poiché occorre saper reagire all’atmosfera e all’ambiente pur restando concentrati. È vero che il nostro portfolio richiede grande pianificazione, ma il nostro compito deve evolversi, perché dobbiamo riuscire a penetrare molto di più nella società. Non basta dare concerti in una sala che è una sorta di tempio, ma è necessario uscire, poiché in gioco ci sono anche una questione identitaria e di identificazione. Pensiamo al recente concerto dei Carmina Burana al LAC, con 300 coristi amatoriali provenienti da diciassette cori da tutta la Svizzera italiana: è stato un evento forte per tutta la regione, un’operazione che ha creato coesione e gettato le basi della fiducia reciproca. Credo si sia trattato di un’esperienza arcaica, oggi più importante che mai.
Durante le prove il direttore suda molto. La musica non è dunque solo questione di intelletto ma anche di lavoro fisico…
Occorre fare un po’ di sport, sicuramente, e io mi muovo molto. Devo dire però che dirigere Tristano e Isotta a Bayreuth con una temperatura di 30 gradi, più che un lavoro intellettuale è assomigliato a una maratona!
Ed emotivamente? Vi sono partiture che ancora oggi smuovono qualcosa dentro di lei?
Sempre di più, direi, poiché meglio conosco le partiture e più per me crescono in intensità. Quando si affronta un’opera per la prima volta si è spesso risucchiati dagli aspetti organizzativi, ma più la si conosce, più si vedono cose nuove, comprese quelle più scomode, che si impara a gestire. È un po’ come quando si visita Parigi per la prima volta: non si riesce a vedere tutto, ma se ne percepisce la grandezza, e con il tempo cambia la qualità della percezione: funziona così anche con la musica.
Markus Poschner, cosa si porterà appresso dalla sua esperienza con l’OSI?
È difficile fare un bilancio, ma questi dieci anni mi hanno del tutto cambiato la vita, e in senso positivo. Ho potuto crescere, ma credo che anche l’Orchestra della Svizzera italiana sia cresciuta con me. Abbiamo percorso un tragitto importante insieme, è questo è il vero successo.
La sua famiglia abita a Vienna, lei ha appena parlato di Parigi, ha lavorato per molti anni a due passi dall’Italia: quanto è importante lavorare in un luogo con una tradizione umanistica?
Io sono un europeo e non posso farci nulla, anzi ne vado fiero. Credo che il nostro sia un entusiasmo che ci portiamo appresso dagli anni Novanta, da dopo la fine della guerra fredda. Le persone della mia generazione avevano l’impressione che in qualche modo il ghiaccio che aveva permeato molte relazioni politiche si stesse infine sciogliendo, che fossimo nel mezzo di un inarrestabile crescendo dove le cose sarebbero solo potute andare meglio.
Questa visione si è rivelata uno sbaglio, poiché il mondo non è mai stato tanto pericoloso. Per questo si finisce per cercare delle connessioni più ampie. Quando penso alle accese discussioni politiche di un tempo, mi rendo conto di quanto si siano ridotte le posizioni, poiché abbiamo polarizzato molti aspetti della società, e questo mi dà molto da pensare. Per me è incredibile come le cose siano cambiate in poco tempo: di colpo sono stati messi in discussione i valori democratici di rispetto, eguaglianza e umanità. Ora in gioco ci sono i fondamentali, ma ciò che temo maggiormente è la frustrazione o l’abbandono del campo da parte di chi ancora crede nei valori democratici. Recentemente mi è stato chiesto perché avessi accettato di dirigere un’orchestra nello Utah, negli USA, mandato rifiutato da numerosi colleghi. Io credo che boicottare gli USA non sia la soluzione, perché oggi più che mai è necessario andarci e aiutare ad esempio attraverso la musica. Se non lo facciamo noi, chi può farlo? Personalmente non posso eseguire Beethoven, autore di brani su giustizia, verità, rivoluzione e umanità, contro il dispotismo, e poi dire che gli aspetti politici non mi interessano. Significherebbe vivere in una gabbia dorata avulsa dalla realtà. Il nostro compito è quello di uscire dalla gabbia, andare dalla gente e mostrare loro che tutte queste battaglie sono già state combattute, che ne conosciamo i risultati potenziali, e che il nostro compito è anche quello di stimolare una qualche forma di risveglio. Wake up! Anche per me si tratta di un’esperienza nuova, di una specie di avventura che affronto con entusiasmo.