Il 27 giugno Repubblica democratica del Congo e Ruanda hanno firmato a Washingotn un accordo sotto l’egida Usa
Scartata e messa in ombra da guerre e catastrofiche che si susseguono nel mondo, quella che sembra una buona notizia è giunta nei giorni scorsi dall’Africa. O meglio, da Washington, dove due Paesi africani da anni in conflitto hanno firmato un accordo di pace. Il 27 giugno i ministri degli Esteri della Repubblica democratica del Congo (RdC) e del Ruanda, seduti ai lati del segretario di Stato Marco Rubio, hanno sottoscritto un protocollo per far tacere le armi nelle province orientali del Congo, in particolare nel Kivu. I due Paesi hanno preso impegni reciproci: il Ruanda di rispettare la sovranità territoriale del suo vicino; la RdC di neutralizzare le formazioni armate attive all’interno dei suoi confini, dalle quali il Ruanda si sente minacciato.
Propagandato dall’Amministrazione Trump come un trionfo diplomatico, l’accordo è stato accolto dagli osservatori come un sicuro fatto positivo, ma anche con molta cautela. Non è certo il primo sottoscritto tra i due Paesi negli ultimi anni, e tutti quelli che lo hanno preceduto sono rimasti lettera morta. È poi carico di silenzi e assenze che non liberano la parola scritta dalle ambiguità e dal peso delle cose non dette. Il Ruanda, ad esempio, non ha mai ammesso di essere intervenuto militarmente all’interno dei confini congolesi, il che fa suonare piuttosto vuote le sue rassicurazioni.
Inoltre, il protagonista vincente dell’ultimo conflitto nell’est del Congo, il movimento M23, che si è rivelato la più forte e organizzata tra le numerosissime formazioni armate attive in quella terra sofferente, non sembra avere avuto alcuna voce in capitolo nella formulazione degli accordi. Animato da Tutsi congolesi, etnicamente e ideologicamente affine al governo del Ruanda – che secondo ogni evidenza lo aiuta militarmente – l’M23 gode però di un’autonomia politica e operativa tale da farlo eventualmente sentire svincolato dagli accordi, e pronto a riprendere le armi, se dovesse giudicarne svantaggiosi gli effetti.
Ma il non detto più vistoso di ogni altro è la brama delle straordinarie risorse naturali, in particolare minerarie, della Repubblica democratica del Congo. Nei mesi scorsi Trump vi ha fatto un fuggevole accenno; e il presidente congolese Félix Tshisekedi ne ha pubblicamente offerto l’accesso agli Stati Uniti, in cambio di un loro aiuto a risolvere i suoi problemi di sicurezza interna. L’interesse americano è duplice. Il primo è la possibilità di impadronirsi di parte delle ricchezze minerarie congolesi. Il secondo è geopolitico, perché il principale fruitore di quel sottosuolo è la Cina, attraverso le sue compagnie, e una rinnovata presenza a stelle e strisce potrebbe ridimensionarne il ruolo.
Questo spiega il timbro esclusivo che l’Amministrazione Trump ha voluto apporre sotto gli accordi di pace, esigendo che i loro protagonisti si recassero a Washington. Nessuno può dubitare che questa sia un’altra pax americana. Per anni gli Usa si erano disinteressati al conflitto del Congo orientale; oggi tutti coloro che se ne erano invece occupati, per la verità con scarso esito – Nazioni Unite, Unione Africana, Unione Europea, organismi di cooperazione regionale – sono stati lasciati fuori dalla porta. In questo modo, tuttavia, gli accordi di Washington assumono un’innegabile sapore neocoloniale, come dimostra il fatto che a Kinshasa, la capitale della RdC, sono stati accolti da sollievo ma anche da manifestazioni di veemente protesta. Gli oppositori accusano il presidente Tshisekedi di avere ancora una volta svenduto la sovranità nazionale e il controllo sulle risorse naturali che fanno del Congo – potenzialmente – uno dei più ricchi Paesi al mondo.
E così, è come se un nuovo capitolo si fosse aggiunto a una storia plurisecolare che sempre ricorre. Una storia che ha segnato tragicamente il Novecento e l’Ottocento, ma risale ancora più lontano nel tempo. L’assassinio di Lumumba complottato da belgi e americani all’indomani dell’indipendenza nel 1960-61; gli orrori del colonialismo belga per volontà di re Leopoldo II, negli ultimi due decenni dell’800; e prima, prima ancora, nei secoli remoti delle scoperte geografiche ad opera dei navigatori portoghesi…
Nei giorni scorsi a Roma è aperta ancora per pochi giorni una bella mostra alle Scuderie del Quirinale. S’intitola Barocco globale e chiuderà il 13 luglio. Racconta di quando la città dei papi, agli inizi del Seicento, irradiò la sua influenza fino agli angoli più remoti della Terra, allora ancora semisconosciuta, e divenne crocevia di genti, culture, tradizioni tra loro distanti e diversissime. Ebbene, la mostra si apre con la straordinaria figura di Antonio Manuel ne Vunda, ambasciatore del re del Congo, venuto a morire a Roma il giorno dell’Epifania del 1608, prima di essere riuscito a riferire a papa Paolo V la sua ambasciata.
Il regno del Congo di allora non corrisponde all’odierna Repubblica democratica; piuttosto, alla parte settentrionale dell’Angola. In comune con lo Stato odierno ha però il basso corso del fiume che i portoghesi avevano chiamato Rio Poderoso e che oggi dà il nome a ben due Paesi africani.
Portogallo e regno del Congo stabilirono subito rapporti amichevoli, tanto che presto i sovrani di quest’ultimo si convertirono al cristianesimo con tutti i loro sudditi. Poi, nel corso del Cinquecento, le cose presero ad andare di male in peggio. I portoghesi chiedevano sempre più schiavi e avorio, insistevano perché i sovrani congolesi rivelassero l’ubicazione delle miniere d’oro che erano convinti nascondessero. Alla fine del secolo re Alvaro II decise di appellarsi direttamente al Papa, come fosse un re dei re della cristianità. Dopo un primo tentativo fallito, affidò la sua ambasceria a don Manuel. Questi, attraverso infinite traversie, impiegò quattro anni per giungere a Roma, ormai morente. La città gli organizzò un grande funerale, il Papa lo fece seppellire in Santa Maria Maggiore. Ma il messaggio non era arrivato. Ancora oggi, si fa fatica a sentirlo.