Adrenalina: Filippo Sala, 23 anni, primo ticinese nel Team Spedizioni del CAS, racconta la conquista della norddella Punta Pioda in Val Bondasca
La sua è una passione di famiglia. I primi passi in montagna li ha infatti mossi seguendo le orme di nonno Luciano, sulle montagne della «sua» Verzasca. Passo dopo passo, però, quelli di Filippo Sala si sono fatti sempre più verticali, fino a divenire vere e proprie scalate. Al punto da diventare uno dei più esperti alpinisti ticinesi. Basti pensare che il 23enne di Agarone è stato il primo ticinese a entrare nel Team Spedizioni del Club alpino svizzero.
L’ultima sua grande impresa l’ha portato nella Val Bondasca, una valle laterale della Bregaglia: «Adoro quel luogo perché per me è la massima espressione della natura pura e semplice, al riparo dalle “folle” di arrampicatori, proprio come piace a me» racconta Filippo Sala. «Lì ci sono il Pizzo Badile, il Cengalo e il Gruppo delle Sciore. Ci sono andato la prima volta tre anni fa per domare il Pizzo Badile, assieme ad altri due “colleghi”, subito dopo Natale, per scalarne la parete nordovest, passando per il Gran Diedro. L’anno seguente, sempre nel medesimo periodo, ci sono tornato con Marc Jenny e Olivier Kolly per affrontare la via Cassin, sulla parete nordest, forse la più difficile di tutte da domare in inverno, quando la liscissima parete si ricopre di placche ghiacciate».
A inizio marzo di quest’anno eccolo nuovamente prendere la via della Val Bondasca, stavolta in compagnia di Roger Schäli e Silvan Schüpbach, che, volendo fare un paragone, nell’alpinismo sono nomi e volti noti al pari di Messi e Ronaldo in quello del calcio. «Stavolta però la meta era un’altra, benché sempre nel Gruppo delle Sciore: la Punta Pioda, che mi intrigava particolarmente e che a detta di Silvan era l’ultima parete nord delle Alpi ancora da scalare. Lo stesso Silvan ci aveva provato più volte, senza però riuscirci».
La “missione” comincia il 5 marzo, con l’avvicinamento al campo base. «Per me quello è sempre il momento più delicato di un’ascesa. Perché è a quel punto che davanti a te si staglia in tutta la sua maestosità la parete che stai per affrontare, e dentro di te affiorano anche tutte le domande, le paure e i dubbi… E così è andata anche quel mercoledì di inizio marzo: dopo tre ore di marcia, sono arrivato in capanna che ero spossato da tutti quei pensieri. In parete, poi, la concentrazione è massima, per cui non hai tempo per pensare o altro: ogni movimento dev’essere ponderato fino all’ultimo, perché il margine d’errore, se ce n’è, è minimo».
Parete, in questo caso, particolarmente difficile per scalare la quale ci vuole una certa organizzazione preparatoria: «È un lavoro di squadra. Dato che saremmo rimasti in parete per più giorni, abbiamo suddiviso gli incarichi e stabilito una rotazione. Il primo ad affrontare la scalata sono stato io, con Silvan che doveva assicurarmi, mentre Roger era addetto al materiale e al bivacco per la prima notte. Fin da subito è stata un’arrampicata tosta, con diversi passaggi dove non basta più l’“arrampicata libera” ed è richiesto un uso attivo dei sistemi di protezione (chiodi a fessura e quant’altro), che dunque non hanno più solo una funzione di sicurezza in caso di caduta, ma servono per avanzare in parete. In quei punti l’arrampicata è più lenta e delicata. Di conseguenza, al termine della prima giornata, quando siamo tornati al campo base dopo aver fissato le corde sul primo tratto di parete, aprendo quattro “tiri” di corda (tre io e uno Silvan), ero davvero spossato».
Condizioni che non hanno risparmiato problemi: «Già l’indomani ci siamo subito trovati confrontati con un primo serio problema: davanti a noi, dopo una cengia di neve, si stagliava una lastra di roccia liscissima, senza fessure. Roger ha allora provato una traversa, impiegandoci qualcosa come sei ore. Superato questo ostacolo, un vero e proprio passaggio chiave che ci ha permesso di continuare per questa via, ho rilevato la testa della cordata per l’ultimo tiro della giornata, prima di raggiungere il bivacco, in parete, preparato da Silvan: dormire in parete è un’esperienza unica, anche se al mattino è dura lasciare il tepore del sacco a pelo per riprendere l’attrezzatura, scarponi compresi, che sono rimasti all’addiaccio: per le prime tre ore di arrampicata ti ritrovi i piedi!».
Ma di sfida in sfida il percorso verso la vetta è stato inarrestabile: «Per cominciare quest’altra giornata alla grande, la montagna ci ha rimesso subito alle corde: sopra le nostre teste si stagliava una sottilissima lama di roccia che a me, già il solo guardarla, incuteva un certo timore. Sembrava solo appoggiata al resto della parete, pronta a staccarsi alla minima pressione… Io ero dell’avviso di aggirarla sulla sinistra. Silvan, però, dopo aver fissato quella lama e averne valutata la consistenza, si è deciso per provare a scalarla dal suo interno. Un’idea folle, ma alla fine è riuscito a convincerci. Non nascondo che, mentre lui apriva questo tratto, io – che stavo sotto di lui (e sotto la lastra) per assicurarlo – ho trattenuto il fiato per quasi tutto il tempo! Superata anche questa sfida, la scalata è proseguita per un altro tratto particolarmente impegnativo fino al successivo bivacco: ogni tiro era una conquista. Una volta superato anche quello, sapevamo che il grosso era alle ormai spalle, e questo pensiero ci ha dato la forza per andare avanti».
Il resto è storia breve: «Ad aprire la via, l’ultimo giorno, sono stato ancora io. Eravamo stanchi, ma a quel punto c’era una sola cosa da fare: andare avanti. Metro dopo metro, centimetro dopo centimetro. Fino alla vetta, che abbiamo raggiunto verso mezzogiorno. Lassù abbiamo festeggiato, ma nemmeno troppo, perché di lì a poco il tempo sarebbe cambiato, per cui abbiamo iniziato quasi subito le calate e siamo tornati sui nostri passi».
Un’avventura pazzesca: «Dentro di me, il ricordo che serbo di quell’impresa, ribattezzata “Luci e Tenebre”, rappresenta la più grande avventura della mia carriera… in verticale. Emozioni intense, che rivivo nella loro interezza quando ripenso a quei quattro giorni, anche perché, quando sei in parete, non hai tempo per gustartele. Anzi, spesso in quei frangenti è più probabile che ti affiori la domanda “chi me l’ha fatto fare?”. La risposta la trovi solo quando rimetti piede a terra».
È questa la via Cassin, sulla parete nordest, «forse la più difficile di tutte da domare in inverno, quando la liscissima parete si ricopre di placche ghiacciate».