La crisi climatica lascia poco spazio all’architettura

by Claudia

Biennale di Venezia: la mostra intitolata Intelligens. Natural. Artificial. Collectiv. è aperta fino a novembre

Pubblicare un testo sulla Biennale di Venezia dopo un paio di mesi dall’inaugurazione ha il pregio di liberare chi scrive dall’obbligo di descrivere l’esposizione, e consente di esprimere con maggiore spazio alcune riflessioni.

La parte della Biennale allestita dal curatore Carlo Ratti è concentrata alle Corderie, perché il Padiglione dei Giardini è chiuso per ristrutturazione. La maggior parte dei circa 300 contributi dei 750 esperti invitati (architetti e ingegneri, matematici e scienziati del clima, filosofi e artisti, cuochi e codificatori, scrittori e intagliatori, agricoltori e stilisti) è quindi accumulata tra le colonne dell’edificio cinquecentesco.

Il tema che ha inizialmente ispirato Ratti è quello del riscaldamento globale e della necessità che l’architettura si trasformi per resistere e adattarsi al progressivo mutamento climatico. La prima sala delle Corderie, allestita da Pistoletto, esprime con efficacia la questione, obbligando i visitatori a transitare in un clima di 40°C, e con un’umidità molto elevata.

In uno scritto di presentazione della mostra («Il Sole 24 Ore» del 11.05.25), Ratti aveva sostenuto che «…è ora che l’architettura la smetta di progettare come se la crisi climatica fosse una possibilità ancora da scongiurare e inizi invece ad agire all’interno della crisi stessa». E aggiungeva che non dobbiamo «… soltanto decarbonizzare, ma costruire in modo che città ed edifici sappiano reggere anche in condizioni di forte stress». Non sarebbe la prima volta, per esempio a Londra nel XIX secolo, dopo il colera, gli ingegneri rivoluzionarono le infrastrutture realizzando fognature moderne. O l’esempio recente di Parigi, quando il livello di inquinamento atmosferico ha superato ogni limite, la città ha deciso radicali limiti al traffico, che hanno abbattuto le emissioni.

Il clima è un tema drammatico e urgente dell’architettura contemporanea. Se la Biennale veneziana si fosse focalizzata su di esso, avremmo potuto prendere atto che, dopo le edizioni curate da Rem Koolhas e da Alejandro Aravena, finalmente la mostra avrebbe rimesso al centro il progetto di architettura e le sue questioni più urgenti. E invece ha prevalso un altro concetto, condizionato forse dalla biografia del curatore – docente al MIT di Boston e autore di progetti urbanistici basati soprattutto sulla connessione di più competenze – e forse anche dal falso mito, duro a morire, dell’architetto demiurgo, capace di riformare la società. Di fatto, il titolo ufficiale della mostra è Intelligens. Natural. Artificial. Collectiv. e il tema protagonista è diventato l’intelligenza artificiale, che è un altro grande tema del nostro tempo, che interesserà certamente anche l’architettura, come anche tutte le altre attività umane.

L’esito è una grande accumulazione di contenuti e di installazioni, stipate nelle Corderie. Ibridazione e multidisciplinarietà, scienza e filosofia, le proiezioni nel futuro, i drammatici squilibri delle risorse nel mondo, il clima, la desertificazione e la povertà assoluta e i mille modi di utilizzare l’intelligenza artificiale per affrontare questi temi hanno occupato lo spazio disponibile, lasciandone assai poco all’architettura.

La mostra fa cadere i perimetri delle discipline e delle competenze, e sembra che l’architetto possa e debba affrontare i grandi temi del nostro tempo praticando sperimentazioni ed elaborando soluzioni che coinvolgono i saperi più diversi.

Invece, nella vita reale, il mestiere dell’architetto e la sua cultura progettuale incidono per una percentuale minima nella determinazione del paesaggio costruito: oggi il vero grande problema di questo mestiere è il rischio dell’irrilevanza sociale e culturale. E il massimo dei paradossi è che il presidente dell’ente Biennale, che a sua volta ha scelto il curatore, è stato nominato da un Governo i cui membri non ritengono affatto rilevante la crisi climatica, né intendono impiegare risorse per affrontare gli squilibri citati.

Ogni installazione viene illustrata da ponderose spiegazioni scritte, ognuna corredata da un riassunto elaborato dall’intelligenza artificiale. L’effetto è che i visitatori fotografano con lo smartphone le scritte esplicative delle installazioni, riproponendosi di leggerle, forse, in seguito.

Per visitare con attenzione tutti i padiglioni della Biennale ci vorrebbe almeno una settimana. Il dubbio che ci assale è se eventi di questa dimensione siano adeguati al nostro tempo e se non sia utile ripensare a eventi dedicati a temi più delimitati.

La rottura dei limiti disciplinari è comunque un fenomeno in atto ed è anche dotato di aspetti interessanti per i suoi esiti culturali, mettendo in crisi convincimenti e prassi consolidate. Ma al grande pubblico, al quale è rivolta la mostra, bisogna esporre le questioni con ordine: ci pare che l’accumulo di informazioni in una sequenza confusa, unita all’esposizione di immagini spettacolari, produca un interesse effimero.

Sono, infine, i padiglioni nazionali a presentare prospettive diverse, soltanto a volte coerenti con il tema generale.

Il padiglione svizzero è problematico, soprattutto rispetto allo straordinario successo di quello del 2018. Le curatrici hanno preso atto del fatto che nessun padiglione dei Giardini è stato progettato da una donna architetto e hanno concepito una riprogettazione effimera del padiglione concepito da Alberto Giacometti nel 1952. Utilizzando pannelli di legno, hanno sovrapposto al recinto murato l’architettura radiale del padiglione creato da Lisbeth Sachs per l’esposizione svizzera del 1958 a Zurigo. Gli spazi risultanti tra le due geometrie provocano un certo fastidio nei percorsi, con un effetto forse volutamente provocatorio.

Tra i tanti padiglioni interessanti, segnaliamo ai lettori quello spagnolo e quello austriaco. Il primo interpreta in modo didattico il tema dell’adattamento dell’architettura alle nuove condizioni climatiche, esponendo con ordine materiali e tecniche costruttive, anche ripensando alle culture tradizionali, e i progetti dai quali sono tratti i materiali esposti.

Il padiglione austriaco disegnato da Josef Hofmann nel 1934 illustra (con video e foto di Armin Linke) due casi opposti di soluzione della crisi abitativa. Il caso di Vienna, dove la questione viene affrontata e risolta «dall’alto verso il basso», con i poderosi investimenti degli enti pubblici. E quello di Roma, nel quale il fenomeno viene invece affrontato «dal basso», con interventi di recupero e trasformazione di immobili abbandonati, da parte di comitati e cooperative di abitanti.