Le forme del cinema horror americano

Ginevrino di nascita, americano d’adozione, Alexandre O. Philippe si interessa da anni alla cultura popolare statunitense e in particolare alle sue espressioni cinematografiche. Sull’argomento ha realizzato documentari come The People vs. George Lucas (2009), su come i fan di Star Wars hanno pesantemente attaccato il creatore della saga a partire dagli anni Novanta, e Lynch / Oz (2022), su come la versione cinematografica de Il mago di Oz del 1939 abbia influito sull’immaginario di David Lynch. E poi c’è tutto un filone dedicato all’horror: Doc of the Dead (2014), sulla popolarità crescente degli zombie negli ultimi anni; 78/52 (2017), che analizza Psycho concentrandosi esclusivamente sulla scena della doccia; Memory: The Origins of Alien (2019), sui miti e le opere d’arte che hanno ispirato l’estetica raccapricciante di Alien di Ridley Scott; e Leap of Faith (2019), praticamente un monologo di William Friedkin sul suo lungometraggio più celebre, L’esorcista.

Ogni volta uno sguardo diverso, inedito sui temi trattati, con l’intenzione di essere divulgativo senza che i film siano percepiti come delle lezioni universitarie o simili. Il tutto con un approccio molto personale, anche nel caso di lavori su commissione come il nuovo Chain Reactions (2024), con il quale è stato chiesto a Philippe di realizzare un film che celebrasse i cinquant’anni di Non aprite quella porta. Un’opera divisa in cinque parti, con altrettanti ospiti che commentano a loro modo il lungometraggio di Tobe Hooper: il comico Patton Oswalt, il regista Takashi Miike, la giornalista e storica del cinema Alexandra Heller-Nicholas, lo scrittore horror Stephen King e la regista Karyn Kusama. Opinioni diverse, alcune con aneddoti su Hooper (King lo conosceva personalmente), accomunate dalla sensazione, rimasta inalterata nel corso degli anni, che si stesse vedendo qualcosa di proibito, di sporco, di spudoratamente ripugnante (e questo anche vedendo singole scene isolate dal contesto del film completo).

Un’esperienza condivisa dallo stesso Philippe che, presentando il documentario, ha spiegato che la prima volta che ha visto Non aprite quella porta è stato in VHS, negli Stati Uniti, con la qualità scadente della cassetta che aumentava l’effetto sgradevole del racconto di alcuni giovani che finiscono tra le grinfie di una famiglia di psicopatici in Texas: «È stata la prima volta che io, patito di horror sin dall’infanzia, ho dovuto interrompere la visione e riprenderla dopo un attimo di respiro», dice il cineasta.

Presentato in anteprima mondiale alla Mostra di Venezia lo scorso settembre, il film ha vinto lì il premio come miglior documentario sul cinema, e da allora fa il giro dei festival, compreso quello di Karlovy Vary dove Philippe è ospite fisso e da alcuni anni cura una sezione all’interno della quale, oltre al suo film, ne vengono presentati altri due-tre legati all’argomento di turno. In questo caso, l’originale di Hooper e uno degli emuli citati da Oswalt, la commedia belga Il cameraman e l’assassino (1992), un finto documentario dove una troupe cinematografica segue e immortala le gesta di un serial killer. Brillante, spassoso e disturbante, forse l’espressione migliore del desiderio di riprendere la poetica di Tobe Hooper senza scimmiottarla direttamente come hanno fatto i vari seguiti e remake, più interessati al sangue e alla satira sociopolitica estremamente spicciola (il capitolo più recente, uscito su Netflix nel 2022, contiene una scena dove l’assassino Leatherface fa a pezzi dei giovani mentre questi lo stanno filmando con una miriade di smartphone).

Questo perché la visione di Hooper è inimitabile, figlia di un momento preciso che non può essere replicato: secondo Philippe, Non aprite quella porta, girato in un periodo in cui la società americana era abbastanza in declino, tra le dimissioni di Richard Nixon per lo scandalo Watergate e la guerra in Vietnam che volgeva al termine, è il più grande horror del suo decennio di riferimento, spinto da una furia che si manifesta sotto forma di qualcosa di volutamente «brutto» e malsano sul piano visivo.

Una furia simile ma diversa si è fatta strada in tempi recenti, con pellicole come Scappa – Get Out (2017), che affronta di petto la questione del razzismo con un filtro fantascientifico molto inquietante, o Immaculate (2024), a suo modo legata alle battaglie per i diritti delle donne in materia di controllo del proprio corpo. Ma non siamo ancora arrivati al punto decisivo, sostiene Philippe: «Credo che adesso, con Trump di nuovo al potere, sia il momento di un film con lo stesso impatto fortissimo che ebbe Non aprite quella porta. Entro quattro-cinque anni mi sa che lo vedremo». Certo, se avrà la stessa carica viscerale sarà forse il caso di avvisare i deboli di stomaco: non entrate in quella sala…

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