Riviera romagnola, solita spiaggia, solito bagnino. Quest’anno, però, c’è una novità. «Le do un ombrellone nella zona senza famiglie, così non ci sono bambini, è più tranquillo», la proposta mi sorprende, la Romagna è da sempre meta prediletta delle famiglie spesso con bimbi piccoli. Mi adeguo, ma rimugino. Poi, tra le chiacchiere vacanziere, un conoscente ticinese mi racconta di essere sconcertato perché nel Comune dove è domiciliato non vengono assunti ragazzi per lavori estivi, «vabbè non formare apprendisti – mi dice – ma un Comune senza problemi finanziari (che vanta un moltiplicatore molto basso, ndr.) almeno gli stage potrebbe garantirli ai giovani». Dal soggiorno balneare seguo, infine, sconsolata le vicende de La Soleggiata, invitata a sloggiare dalle Cave di Arzo, troppo rumore, troppo casino. Insomma ammettiamolo, i bambini non ci piacciono e i ragazzi ci disturbano. Fin qui nulla di male, se non fosse che ciclicamente esperti di statistica, di demografia e di economia ci ricordano che il calo delle nascite è un problema serio, sia dal punto di vista sociale sia dal punto di vista economico. Lo chiamano «inverno demografico» e in Ticino, ha confermato l’USTAT in questi giorni pubblicando i dati aggiornati del movimento naturale della popolazione, fa proprio freddo. Nel 2024, infatti, il numero dei nati vivi nel nostro cantone è stato il più basso degli ultimi 40 anni (2319 bimbi), il saldo naturale della popolazione è ormai negativo da anni e l’età delle primipare continua a innalzarsi (l’età media in cui una donna fa il primo figlio sfiora i 33 anni).
Delle culle vuote si è occupato anche Dario Campione sul «Corriere del Ticino» di venerdì 11 luglio con un’intervista a Giancarlo Blangiardo, già professore di Demografia all’Università Milano Bicocca. Alcune riflessioni del professore mi paiono particolarmente importanti. Il fatto, ad esempio, che la società non abbia ancora compreso sino in fondo che «volere i figli riguarda tutti» e soprattutto l’aspetto strutturale di questo cambiamento: «le poche bambine di qualche anno fa sono le poche mamme di oggi, ma le ancor meno bambine di oggi saranno le pochissime mamme di domani». Un cambiamento culturale, dunque, è ormai urgente. Aiutare le donne nella conciliazione tra lavoro e maternità non è una richiesta campata in aria da alcune femministe un po’ fanatiche ma un’esigenza palese del nostro sistema economico che deve poter contare su una forza lavoro importante e insostituibile come quella femminile. Inoltre prendersi a carico (e a cuore) la crescita, il benessere e la formazione dei nostri bambini e ragazzi deve essere un dovere condiviso da tutti gli adulti (genitori e non), anche perché, in una visione utilitaristica e un po’ semplicistica del futuro di una società di anziani, come quella che saremo, bisogna domandarsi: chi ci curerà e chi pagherà le nostre pensioni? Ma in questo inverno a suggerirci una nota positiva è l’ex rettore del Politecnico di Milano Ferruccio Resta, attuale presidente della Fondazione Bruno Kessler di Trento ripreso anche da Ferruccio De Bortoli in un suo editoriale sul «Corriere della Sera». «La rappresentazione delle nuove generazioni – dice Resta – oscilla spesso tra luoghi comuni e semplificazioni. Il racconto dominante le descrive come disinteressate, passive, perennemente distratte. Ma gli esempi positivi, di studio e impegno, sono tanti, tantissimi, dovrebbero essere più conosciuti e discussi». Intanto gli esperti di demografia avvertono che i tempi necessari per invertire la situazione sono lunghi e il compito è tutt’altro che semplice. Per non scoraggiarci nel frattempo sarebbe opportuno (ri)cominciare a gioire degli schiamazzi vitali e vivaci dei bambini e impegnarci a dare spazio, fiducia e sostegno ai giovani. E poi… speriamo che sia femmina! O maschio, chissà.