L’umile passo del critico sempre in viaggio

Goffredo Fofi è stato, nella cultura italiana, un personaggio unico. Per generosità, spirito critico, attivismo. È nato a Gubbio il 13 aprile 1937 ed è morto l’11 luglio scorso lasciandosi alle spalle decine di orfani: non figli naturali, ma figli ideali, si potrebbe dire discepoli abbagliati dal maestro burbero e generoso (maestro con l’iniziale minuscola), dal suo carisma indubbio, dal pensiero disobbediente e dalla pratica instancabile, dalla sua utopia pragmatica.

Fofi è nato in una famiglia contadina socialista: il padre aggiustava biciclette, ma il lavoro lo costrinse a emigrare presto in Germania, da cui dovette fuggire minacciato dal nazismo. La violenza nazista irruppe nel suo paese, dove i tedeschi, per rappresaglia, uccisero quaranta persone. Bambino, Goffredo fu portato dai genitori alle Fosse Ardeatine per vedere le file di bare scoperte dei trucidati e il pianto dei familiari. Fu lì che nacque, precocissima, la sua sensibilità politica, accompagnata da un persistente senso di angoscia e di nevrosi.

Rimase subito folgorato dalle figure di cattolici che si prodigavano per i poveri e per gli ultimi (tra i primi, padre Turoldo). Nelle sale cinematografiche di Gubbio, Fofi si innamorò di Anna Magnani, di Macario, di Totò, soprattutto: in anni maturi sarebbe stato lui il primo a rivendicarne il genio (L’uomo e la maschera, del 1972, scritto con Franca Faldini, la moglie del principe de Curtis, è un ritratto straordinario dell’attore).

Il cinema è il primo amore di Fofi, insieme con il Sud. A 14 anni legge Cristo si è fermato a Eboli e a 17 sfogliando la rivista «Cinema nuovo» di Aristarco scopre le fotografie di Enzo Sellerio dedicate al lavoro di Danilo Dolci in Sicilia, alla sua battaglia contro la fame, il potere mafioso, l’analfabetismo. Dunque, dopo il diploma di maestro, parte, raggiunge Dolci a Partinico e si affianca a lui nell’organizzazione degli «scioperi al rovescio» con i disoccupati, «poveri cristi della banda Giuliano che uscivano dal carcere». Ne guadagna un foglio di via come persona non gradita. Andrà in Calabria a lavorare nelle scuole delle periferie e negli ospedali psichiatrici infantili. La sua vita si indirizza verso l’impegno, a Roma e poi a Torino conosce Ada Gobetti, Parri, Bobbio, Salvemini, Venturi, soprattutto Aldo Capitini, il filosofo cattolico della non violenza che rimarrà suo amico e faro ideale per sempre.

A Torino si interessa al mondo dell’emigrazione operaia meridionale grazie a un grande intellettuale socialista come Raniero Panzieri. L’inchiesta che ne scrive nel 1963 è uno dei più clamorosi casi editoriali: perché viene rifiutata dall’Einaudi per motivi politici, provocando una frattura all’interno della casa editrice con successive cacciate di redattori. Contro quel libro si esprimono persone che stima come maestri (gli stessi Bobbio e Venturi, oltre a Italo Calvino e a Giulio Bollati). L’inchiesta verrà pubblicata due anni dopo da Feltrinelli.

È inevitabile, ricordando Fofi, evocare nomi e nomi di figure che ha incontrato e conosciuto, con cui ha collaborato e polemizzato, che ha amato. A cominciare da Elsa Morante, sua madrina «rabdomante zingaresca». Sono gli anni in cui si avvicina alla rivista della nuova sinistra, fondata a Piacenza nel 1962 da Piergiorgio Bellocchio e Grazia Cherchi, con Franco Fortini nume tutelare. Sarà la sua palestra di critico controcorrente e a volte spietato.

Delle riviste Fofi sarà un mago senza confronti, un autentico Deus ex machina, capace di inventare spazi di dibattito autentico che accolgono critica sociale, letteraria, cinematografica, teatrale, politica, inchieste, reportage, racconti, poesie, fotografia, fumetto, arte in un’armonia editoriale quasi miracolosa: «Ombre rosse», «Linea d’ombra», «La Terra vista dalla Luna», «Lo straniero», «Gli asini». Sono luoghi aperti alla contaminazione, che ospitano i grandi vecchi trascurati, le esperienze eterodosse (Living Theatre, Carmelo bene, Schifano…) e i giovani esordienti che Goffredo scopre e non di rado abbandona quando li vede diventare autori di successo. Tutto perdonava Fofi, tranne l’ambizione e la furbizia.

La lista degli «adepti», dei compagni di strada, dei sodali è interminabile e transgenerazionale: da Stefano Benni ad Alessandro Baricco, da Fabrizia Ramondino a Roberto Saviano, da Anna Maria Ortese ad Alessandro Leogrande. I suoi amici, poi, non si contano: da Romano Bilenchi a Ermanno Olmi. E nella grafica, nel teatro, nel cinema, nel volontariato, nell’associazionismo sociale ha sempre uno sguardo lungo, internazionale (che utilizza anche come consulente editoriale e direttore di collane), grazie a una ricerca instancabile che non lo tiene mai fermo…

Fofi è stato l’intellettuale più camminante del secondo Novecento, con il suo bastone (portato anche un po’ per vezzo) e la barba piena da frate minore, i sandali, la fiera pratica vegetariana. Ovvio che un tipo del genere non poteva piacere alla sinistra istituzionale (con cui dibatteva aspramente) né, tanto meno, al cinismo di destra, che derideva l’attivista pronto a litigare quasi con tutti i mostri sacri e insieme impegnato a fondare nel quartiere Montesanto, a Napoli, una «mensa proletaria per bambini» battendosi sul campo contro il lavoro minorile (anche quando era legato all’alta moda).

Nel cinema bisognerebbe citare almeno gli interventi (non sempre morbidi) su Pasolini, e quelli su Sordi, su Marlon Brando, su Jerry Lewis, su Fellini (stroncato e poi rivalutato). A Parigi, dove soggiornò giovanissimo con la sua famiglia, cominciò a frequentare i cineclub del Quartiere Latino e a conoscere la Nouvelle Vague, oltre a seguire i seminari di Barthes e Foucault uscendone più annoiato che frastornato. Fu lì che cominciò a lavorare nella redazione della rivista «Positif», dove portò la passione per la commedia e per il western all’italiana.

Nessuna puzza intellettualistica sotto il naso: Fofi viaggiava instancabilmente (per lo più in treno) dal Nord al Sud, così come passeggiava dall’alto al basso dentro ogni cultura (avanspettacolo, canzonetta e fantascienza compresi), sempre circondato da amici e mai in solitudine. Ogni volta che lo incontravi, sempre pronto a elogiarti o a rimproverarti qualcosa, aveva nomi e mondi, per lo più sconosciuti, da consigliare e altrettanti, ben conosciuti, da sconsigliare. Aderiva e partecipava a tutto ciò che era periferia silenziosa, impegnata e seria.

Ricordo la sua stima per la nostra rivista ticinese «Idra» che ancora negli ultimi anni, quando ormai era estinta da tempo, continuava a citare per aver pubblicato Agota Kristof e intervistato il suo amico Bellocchio. Stravedeva per gli amici tagliati fuori dal mainstream. Bobbio lo definiva giustamente un pessimista scontento di esserlo.

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