Non c’è nulla di più importante al mondo, che riguardi l’umanità intera: riusciranno gli Stati Uniti d’America a superare la profonda crisi di identità in cui sono precipitati in questo primo quarto di secolo, oppure no? Nessuno può coltivare certezze in materia. Salvo constatare che indipendentemente dalla risposta – in ogni caso da misurare nel corso di anni, se non decenni – la nostra vita cambierà. Stiamo trattando della massima superpotenza della storia, che ha dominato gli ottant’anni che ci separano dalla Seconda guerra mondiale e le cui difficoltà potrebbero annunciare la vigilia della terza, come intuito da papa Francesco nel suo famoso slogan della «guerra mondiale a pezzi». Eppure si può percepire, almeno in Europa, una certa riluttanza a tematizzare il problema, forse perché troppo grande e gravido di conseguenze per noi, che bene o male siamo parte dell’impero americano. Alla cui ombra abbiamo ricostruito patrie distrutte e – in parte – reputazioni compromesse. E abbiamo goduto di questa lunga pace, mai così protratta nella storia del Vecchio Continente, soprattutto in grazia della copertura americana. Pace che appunto rischiamo di perdere proprio perché a Washington parrebbero stanchi di tenere aperto il cosiddetto «ombrello» strategico (leggi nucleare) che avrebbe scoraggiato qualsiasi avversario dall’attaccare le province originarie del sistema americano.
Sgombriamo subito il campo da un equivoco diffuso. Piaccia o non piaccia la crisi non è dovuta a Trump. Lui ne è la conseguenza. Ed è dalla composita coalizione, già abbastanza lasca, che si richiama al presidente, che deve essere avviata la terapia ricostituente. Una rivoluzione, invero. Per ora non funziona. Soprattutto perché gli americani soffrono della perdita di un’identità condivisa. Dramma prodotto dalla globalizzazione, intesa come americanizzazione del pianeta, temerariamente avviata a cavallo del cambio di millennio sotto Clinton, riscrivendo parte del copione già schizzato da Reagan. Dunque neoliberismo in economia, sinonimo di mercatismo ovvero arretramento dello Stato e del ruolo pubblico nell’economia, surrogato in buona misura dai privati che usano delle istituzioni a piacimento. Per il bene di tutti, dicono. Sorta di iper-capitalismo mercatocentrico che esalta il ruolo del singolo imprenditore grazie ai cui spiriti animali alla fine tutti vincono e nessuno perde. Allo stesso tempo, dilagano le pratiche aziendali fondate sui princìpi del management, depurati di qualsiasi considerazione sociale e indifferenti al regime politico, tanto da rendere il modello liberaldemocratico a stelle e strisce irriconoscibile. Ne è nata una spaccatura verticale fra ricchi e ricchissimi e classi medio-basse di razza bianca e cultura protestante/evangelicale. Mentre l’ex superpotenza industriale ha quasi abbandonato la manifattura, delocalizzandola in nome della globalizzazione e della ricerca di manodopera a basso costo.
La crisi non è tanto economica quanto culturale. Con l’individualismo assoluto si produce il grado zero della comunità. Della Nazione. Nelle parole della profetessa del neoliberismo applicato, l’ex premier britannica Margaret Thatcher: «La società non esiste». Se ne deduce un peculiare nichilismo, diffuso in tutto l’Occidente, ma prorompente negli States. Accompagnato a fenomeni di depressione, di cui l’uso delle droghe stordenti – fentanyl su tutte – è conseguenza inaggirabile. Un americano su tre è diagnosticato depresso. La malattia diventa strutturale spaccando le famiglie, dove spesso ciascuno conduce vite separate. O rinuncia ad averne una per incompatibilità di cultura di base: solo 4 matrimoni su 100 avvengono fra democratici e repubblicani, o comunque persone afferenti ai due schieramenti, ormai due quasi-Nazioni che non si sopportano. È più facile che ci si mescoli per razza: gli sponsali fra bianchi e neri sono 9 su 100. Classificare il trumpismo come rozzo «populismo» – termine troppo speso per poter significare qualcosa – non aiuta la diagnosi. Se non ricordandoci che alla radice del successo di Trump che si comporta da monarca assoluto non avendone i poteri sta mutando la costituzione materiale degli Usa. A forza di tentare cambi di regime in case altrui, gli americani stanno cambiando il proprio prendendo a modello i regimi che si proponevano di liberalizzare. Sicché cresce la rivolta dei «deplorevoli» (copyright Hillary Clinton), degli «hillbillies» (burini) cantati dal vicepresidente Vance, contro le élite liberal.
Non basta accorciare le linee dell’impero, per definizione impossibile su scala globale, per salvare la repubblica. Anzi, le due crisi, interna ed esterna, mescolandosi accelerano il declino. L’ossessione della Cina, unico tema più o meno unificante dei gruppi dirigenti a stelle e strisce, non promette bene. Anzi, estrapolando la tendenza corrente nel tempo prossimo è palese come questa rischi di sfociare davvero in quel conflitto mondiale che sarebbe quasi certamente l’ultimo. Per successiva carenza di umani. Noi europei siamo interessati a evitare che l’America si avviti su sé stessa, scivolando verso l’apocalissi. Da amici, o almeno soci del «numero uno», potremmo fare di più per aiutarci insieme, americani ed europei, a non precipitare verso l’irrimediabile. Ma viviamo tempi di paradossi. Mentre la massima potenza militare del pianeta cerca, con scarso successo, di mediare fra i combattenti o almeno frenare le guerre, noi europei, più o meno nani militari, giochiamo al riarmo. Naturalmente in ordine sparso. Quando un cancelliere tedesco annuncia di voler riportare il suo Paese, autoproclamato campione di europeismo, alla leadership militare nel Continente e nessuno o quasi ne parla, vuol dire che siamo fuori rotta. Il tempo per raddrizzarla scarseggia.