Discutendo qualche tempo fa con un amico jazzista, si parlava dell’attitudine autopromozionale che caratterizza i giovani musicisti di oggi. «In America lo fanno da tempo» diceva. «A chi si iscrive alle scuole di musica insegnano non soltanto a suonare, ma spiegano anche come si gestisce e promuove una carriera. Senza competenze economiche, di comunicazione e di marketing difficilmente si ci afferma». Le scuole di musica professionale in Svizzera si sono adeguate al modello: chi esce dalla scuola di jazz di Lucerna, di Berna o Zurigo sa benissimo di essere, in un certo senso, un «prodotto» sul mercato, che deve trovare spazio e un proprio pubblico.
Quando si chiacchiera amabilmente e amichevolmente con Matteo «Peo» Mazza, batterista ticinese di grande esperienza e capacità, ci si trova all’estremo opposto di questa concezione moderna della professione musicale. Difficile trovare un artista altrettanto mite e understated, innamorato della musica e del suono nei loro aspetti più semplici, umani, immediati. Basta dare un’occhiata al suo studio di registrazione di Certara, lassù in cima alla Valcolla (e lo studio si chiama proprio così, La sü in scima studio), un luogo singolare in cui la tecnologia più moderna si è inglobata in una costruzione antica, una cascina nel nucleo, diventando un vero gioiello di magia musicale.
«Ho cominciato a suonare da ragazzo, come tutti. Già da piccolo avevo questa predisposizione per la musica. Mi piaceva molto. Ricordo che andavo a letto la sera e mi costruivo nella testa delle composizioni musicali complesse, quasi sinfoniche, fatte di collage di vari stili. Dopo tanti anni ho scoperto che era qualcosa di simile a quello che stava realizzando Frank Zappa, uno dei più elaborati e geniali compositori nel mondo del rock». Mazza inizia suonando la batteria in un gruppo messo in piedi con alcuni amici coetanei, nei primi anni Ottanta. «Ci chiamavamo Acquario, facevamo una musica vicina al prog, quella che andava di moda allora. Si suonava da dilettanti, da autodidatti, ma poi io ho sentito che dovevo andare a imparare davvero la tecnica. Sono andato a Milano, sono stato allievo di Tullio De Piscopo, il quale, dopo un paio di lezioni mi ha detto «Ma tu cosa ci fai qui? Tu sei già capace di suonare… vai, comincia la carriera!».
E così è stato: Peo Mazza può vantare un curriculum musicale come pochi altri musicisti ticinesi. «Ho capito subito che per fare questo mestiere devi essere pronto ad andare via. Ho girato il mondo, potrei dire. Ho avuto contatti musicali davvero importanti. Uno tra tutti quello con Giorgio Conte, con cui siamo stati ovunque e con cui si è creato un forte legame di amicizia. Ho suonato di tutto, dall’heavy metal al folk. E mi piace tutta la musica». Al punto che, quando è stato il momento, ha deciso di creato un suo studio di registrazione, proprio per concretizzare il piacere di mettere i suoni su disco.
A chi lo va a trovare racconta di come quello studio è cresciuto un pezzettino alla volta, traendo spunto anche da vicende casuali. «Lo vedi questo microfono? L’ho trovato in uno studio di Roma dove ero andato a registrare. Era lì in un angolo, tutto ammaccato. L’aveva usato Renato Zero, ma poi era caduto e si era rotto. Io ho chiesto se me lo vendevano: me l’hanno dato per poco. Io poi l’ho riparato, e adesso è uno dei migliori che ho».
Ma torniamo alla musica suonata, e in particolare a un progetto molto originale e anche molto ticinese. Di recente Peo è tornato a calcare i palchi del nostro cantone suonando la musica di un gruppo che in realtà risale a oltre trent’anni fa, i Panighiröl. «Il progetto originale di una formazione che proponesse musica folk, suonata con strumenti acustici, e che mettesse in piedi un repertorio di canzoni in dialetto basate su leggende ticinesi, era nato originariamente all’inizio degli anni Ottanta. Allora non c’erano molti gruppi che avessero questa ambizione di recuperare soprattutto il dialetto. Il nome stesso della band è stato creato attorno a una parola rara, evocativa, l’immagine di questa piccola lucciola che a modo suo rischiara la tradizione».
I Panighiröl in quella formazione iniziale con Beniamino Gubitosa, Giorgio Valli, Mario Canova e Tita Leoni, avevano tenuto molti concerti, si erano trovati un certo spazio nella scena musicale del cantone. «Erano tempi diversi, c’era un certo interesse per la musica folk, il nostro primo concerto ricordo l’avevamo tenuto all’interno del Centro giovanile di Lugano, che era situato nel vecchio Ospedale Civico». Poi, come succede spesso, il gruppo si era sciolto. E si era però riformato diversi anni dopo, nel 1999, per registrare (naturalmente a Certara, per conto della casa discografica ticinese Altrisuoni) un album in cui erano confluite quelle canzoni. «Il disco Leggende Ticinesi era stato prodotto dalla RSI e ha avuto il merito di fissare un repertorio che era stato completamente scritto da noi. Canzoni originali e che volevano mostrare che si poteva comporre canzoni in dialetto e preservare una tradizione, qualcosa di diverso dal folk più popolare, commerciale, che tutti conosciamo».
Il disco, che è ancora sul mercato, ha ottenuto un discreto successo e proprio di questi tempi le canzoni che lo caratterizzavano, come La veduva da Biasca, Ul laghet Giazaa, L’ültim urs, tornano a risuonare grazie a una nuova reincarnazione dei Panighiröl: «Nel nuovo gruppo sono l’unico membro storico. Insieme a me due giovani musiciste, Valentina Londino e Sara Magon, e Christian Gilardi al flauto. Ci sembrava che fosse un buon momento per tornare a riproporre quelle musiche che hanno una loro vitalità e una loro forza».
Chi volesse avere informazioni sulle prossime esibizioni dei Panighiröl tenga d’occhio la loro pagina sulla piattaforma Mx3 (https://mx3.ch/panighirol). Per il resto, l’avventura di Peo Mazza continua, e noi la seguiremo molto volentieri.