Con la stessa dedizione con cui da decenni produce il suo vino di qualità, Mario Matasci colleziona opere d’arte. Dedizione, ma anche intuito e passione, nonché una risoluta coerenza (difficilmente riscontrabile in altre figure dello stesso ambito) che rispecchia appieno la sua indole determinata e fedele al proprio sentire.
L’avvicinamento al collezionismo di Matasci è stato dettato dal caso, grazie al fortuito incontro, nell’estate dell’ormai lontano 1968, con un omone dall’aspetto poco rassicurante che rispondeva al nome di Erwin Sauter, pittore basilese trasferitosi in Vallemaggia. Di questo artista Matasci conserva ancora oggi una foto su una mensola della grande libreria ne «Il Deposito» di Riazzino, non lontano dal primo dipinto che aveva acquistato dallo stesso Sauter e che aveva segnato l’inizio della sua raccolta d’arte.
Sebbene sia stato questo episodio a costituire l’incipit della sua avventura collezionistica, Matasci ha custodito dentro di sé fin da ragazzo un forte amore per l’arte, tanto è vero che dopo aver frequentato il liceo sognava di diventare un insegnante di disegno. La sorte, e forse ancor più la devozione per la famiglia, lo hanno fatto diventare un enologo ma quell’interesse, momentaneamente sopito, è riemerso in tutto il suo vigore proprio con la scelta di dar vita a una raccolta d’arte, adoperandosi per la salvaguardia e la promozione della storia artistica del nostro territorio.
A far parte della sua collezione sono oggi più di duemila opere: un cospicuo e prezioso patrimonio culturale, ininterrottamente incrementato, che si è sviluppato nel corso di più di mezzo secolo seguendo l’evoluzione del gusto e dell’esperienza personale del suo creatore. La raccolta, del resto, testimonia l’autonomia e l’estrema libertà con cui Matasci si è sempre mosso, alieno da obblighi imposti dalle mode o dalle tendenze del mercato e attratto invece da quegli esiti artistici affini al proprio modo di avvertire il mondo.
Non è un caso che tra i suoi artisti prediletti vi siano molte figure schive e riservate, inquiete e profonde. Figure spesso distanti da correnti o gruppi ben definiti, che hanno rimarcato con decisione il loro peculiare linguaggio espressivo e che hanno fatto dei loro lavori un punto di contatto tra lo spazio fisico e lo spazio interiore, imbevendoli di nostalgia, amarezza, tormento e ricerca della verità.
E difatti è come se ci fosse un sottile filo rosso ad accomunare la maggior parte delle opere della collezione. Un elemento condiviso che si manifesta nella propensione degli artisti all’uso di una materia pittorica densa e irrequieta, capace di restituire da diverse prospettive, ma con la medesima intensità, le contraddittorie vicende dell’esistenza personale e collettiva dell’uomo.
Matasci ha individuato e radunato il meglio di questi artisti, e lo ha fatto con quella fermezza che appartiene solo a chi non ha dubbi in merito a ciò che ritiene essere di valore, andando sovente controcorrente rispetto alle inclinazioni del settore. Indagando prevalentemente l’ambito informale-espressionista, con le sue scelte d’acquisto Matasci ha legato la propria raccolta alla particolare identità del Ticino, da sempre luogo dalla duplice vocazione, proiettato verso la cultura italiana da una parte e intriso delle suggestioni nordiche dall’altra.
Nel novero di questa collezione strutturata con pazienza e oculatezza è entrato a far parte un nucleo di lavori dell’artista svizzera Elisabetta Bursch, donato dal figlio George alla Fondazione Matasci per l’Arte. Si tratta di un insieme di opere che ben documenta la produzione di questa pittrice sensibile e riservata, anticonformista e genuina nel proporre un lessico che ha saputo coniugare tecnica ed emozione. Lavori, questi, che sarebbero andati perduti se non fosse stato per la curiosità di Matasci e per il suo interesse a tutelare e promuovere l’arte legata al territorio, impedendone la dispersione e l’oblio.
La mostra di Elisabetta Bursch, che arriva a quasi trent’anni dall’ultima a lei dedicata, è allestita presso «Il Deposito», accogliente spazio espositivo tra le vigne di Riazzino che Matasci apre personalmente al pubblico tutte le domeniche pomeriggio e che per molti appassionati è diventato un punto di riferimento imprescindibile per poter godere liberamente di tanti dipinti e della lettura di preziosi volumi d’arte.
Zurighese di nascita, Bursch, classe 1923, dopo aver trascorso alcuni anni in Venezuela, dove conosce numerosi artisti europei che dal Vecchio Continente avevano raggiunto questa terra in pieno sviluppo economico, negli anni Sessanta si trasferisce a Marsiglia e poi a Parigi, città in cui apprende anche le tecniche dell’incisione grazie alla frequentazione del poliedrico artista Henri Goetz. Al 1972 risale il suo ritorno in Svizzera, dapprima a Locarno e in seguito a Minusio, un rientro definitivo al paese natio che la vede aprire un proprio atelier ed entrare in contatto, pur in una dimensione che tutela la sua natura discreta, con molti colleghi locali e galleristi elvetici.
In questo percorso, in cui frequenta città diverse cogliendo stimoli sempre nuovi, la pittrice parte da un linguaggio che si avvicina alla corrente dell’informale per poi giungere all’astrazione e approdare infine all’Arte Concreta. È con quest’ultimo orientamento artistico che Bursch si scopre in sintonia, facendo proprio il presupposto che la pittura debba rifiutare qualsivoglia legame con il dato naturale per ambire a esprimere «concretamente» le forme universali che sottendono al reale.
Ecco allora che le componenti per perseguire questo scopo sono la geometria e i colori puri e nettamente definiti: l’opera d’arte non ha più alcun nesso con gli elementi del mondo esterno, essendo concepita nella sua evidenza oggettiva e non imitativa. Nel solco del costruttivismo russo e del neoplasticismo olandese, di cui adotta idee e pratiche, l’Arte Concreta punta dunque a suscitare emozioni senza avvalersi di riferimenti figurativi, diventando «pura espressione di misura e di norma», come puntualizzava il pittore e grafico svizzero Max Bill, uno dei più noti esponenti del movimento.
In mostra a Riazzino, gli oli su tela, i collage e le acquetinte rivelano da una parte la precisione e la disciplina compositiva tipiche della Bursch, dall’altra la sua capacità di far emergere da questo stesso rigore molteplici implicazioni emotive. È «un equilibrio nella asimmetria» ciò che insegue l’artista, un’intesa tra l’accurata disposizione sulla superficie di forme regolari, come il cerchio, il quadrato, il triangolo o la losanga, e l’introduzione di linee e di figure spezzate che scompaginano questa armonia, animando la composizione in una continua tensione tra forze ed energie contrastanti.
Con un segno curvo che infrange la continuità di una retta o con un tratto diagonale che interrompe spavaldo l’ortogonalità dell’insieme, Bursch genera raffinate instabilità, alla ricerca di un fecondo compromesso tra ordine e vitalità. Anche sul piano cromatico avviene lo stesso, con vividi lampi di colore rosso o nero ad accendere i bianchi, gli azzurri, i verdi e i grigi smorzati che dominano la scena.
L’artista ha descritto le sue opere come «il risultato di un processo mentale assiduo», testimoniando quanto l’immediatezza che le caratterizza sia in realtà frutto di una riflessione costante sul significato e sul valore della pittura. Una pittura che per Bursch, proprio nell’intrigante convivenza di elementi opposti, desidera trovare una possibile consonanza tra il caos dell’esistenza terrena e una più quieta dimensione spirituale.