La capanna del Tasso, nascosta in un angolo del giardino all’inglese voluto dal marchese Ferdinando Cusani (1737-1816) per la sua villa di delizia a Desio, forse era la curiosità maggiore. Sotto un tetto di paglia, il passeggiatore, varcando la soglia, non poteva non stupirsi per le scene bucoliche di quattro quadri tratti da La Gerusalemme liberata (1581) di Torquato Tasso. Il giardino incantato di Armida, dischiuso in tutto il suo erotismo con Rinaldo stregato dalla maga di Damasco nel canto sedicesimo, tra le pagine della Dissertazione sui giardini inglesi (1792) di Ippolito Pindemonte, del resto, dei giardini all’inglese, risulta esserne inconsapevole preludio. Follia architettonica d’ispirazione letteraria che mi rimanda al sarcofago del Petrarca e la torre dantesca, catturate a fine primavera nel parco Belgiojoso (1790) di Milano, come pure all’antro omerico osservato due settimane fa nel giardino all’inglese di Monza (1780). Però, purtroppo, la capanna del Tasso a Desio – quarantunmila anime e rotti a venti chilometri nord dal Duomo, noto per aver dato i natali a un papa e all’utilitaria bianchina nonché per i suicidi ferroviari – è perduta. Idem il laghetto, l’isoletta rousseauiana con pioppi e cippo funerario, il tempietto di Imene, il coffee-house stile egittomania, il labirinto.
Eppure, dentro fino al collo nello studio dei giardini all’inglese tardosettecenteschi nell’hinterland milanese e seriale per natura, la decisione è di vagare lo stesso per il parco di villa Cusani Antona Traversi Tittoni. A caccia di quel che resta del «superbo quadro di paesaggio», come lo definisce Ercole Silva: ormai mio compagno di viaggio invisibile, databile al 1792. Con il rischio che sia solo aura o l’epigrafe di un cenotafio. E allora, pianta del grandioso giardino Traversi di Desio incisa nel 1844 dal tenente ingegnere geografo pensionato Giovanni Brenna alla mano, un torrido pomeriggio di luglio, cerco di localizzare follies svanite. A occhio e croce, laghetto, isola, capanna, sono fuori dal parco odierno, massacrato da una lottizzazione. La capanna, «il bellissimo gabinetto del Tasso» come viene chiamato nel testo anonimo di un almanacco del 1828 dal titolo Un’ora nel giardino di Desio, era, credo, dove oggi c’è il posteggio di una scuola media. Di tassesco rimane, su un muro di via Piermarini, il nome Erminia. Via dedicata all’architetto incontrato a Monza e autore anche della villa qui oltre che del giardino, dalla quale entro nel parco.
Cicale come in Toscana, corridori a torso nudo, roggia in secca da un secolo, ombra sopraffina, panche di pietra antichissima sparse. Potrebbero essere pezzi del tempietto, tipo la trabeazione. Il cannocchiale prospettico tipico, con la villa nel punto di fuga, si sdraia davanti intatto: pratone classico, le nuvole-chiome ai suoi lati. «Grandi macchie arboree felicemente disseminate a formare scenari suggestivi» le descrive Giacomo Bascapè in Arte e storia dei giardini in Lombardia (1962). Dove parla di una lapide che ricorda che qui Bellini ideò La Straniera (1829). Finora non l’ho incontrata ma potrebbe essere una delle panche che costellano i sentieri serpeggianti originari tra i boschetti misti di castagni, querce, tassi. In una di queste, il bordo è ondulato come contorno di nuvole: dettaglio da nulla, tesoro sfuggente. Risalito al cospetto del villa-palazzo, trovo un Nettuno ambimonco intristito dalle transenne intorno, la fontana vuota, erbacce. Una grotta è stata riciclata per un altarino mariano di fortuna. Solo conifere in un certo punto, dove spunta, ormai fuori dal perimetro del parco, innestata sui resti di un convento francescano, la torre neogotica di Pelagio Palagi: pittore ideatore anche di un castello natante sul Po.
Niente a che vedere con i padiglioni miniaturistici dei giardini all’inglese tradizionali, ma una torre vera che in cima ricorda Chiaravalle. Spunta il cenotafio Antona Traversi, opera di Luca Beltrami, architetto tra l’altro della sede del «Corriere della Sera» (1904), con un curioso ponte alla base, per far passare una roggia che non c’è più e che scorreva comunque altrove. Cenotafio ex-acqueo dunque. Per i conoscitori del piacere del ruinismo, ancora pezzi di chissà cosa, forse la coffee house egittomane, utilizzati come panche per nessuno. Altra traccia del Tasso, Clorinda è il nome di un lagotto in cerca di tartufi estivi.