Il respiro fiorito di Rarotonga

by Claudia

Dispersa nel cuore dell’oceano, assieme ai diversi arcipelaghi lontani racconta un mondo sospeso tra foreste pluviali e culture ancestrali

«Prima di avvistare la terra, è il profumo dei fiori portato dal vento ad annunciare Rarotonga» raccontano gli skipper nel porto di Avarua, la sonnacchiosa capitale delle Isole Cook. Ibisco, gardenia, girasole, frangipane, flamboyant, orchidea, zenzero e altre duecento piante da fiore che – frullate dal caldo umido dei Mari del Sud – concorrono al cocktail olfattivo dell’isola giardino del Pacifico.

Lo si scopre ad Ara Metua, la strada nell’interno tra piantagioni di papaie, banane e cotone, tra manghi e un’orgia multicolore di infiorescenze. È parallela ad Are Tapu, l’arteria costiera che in 32 chilometri disegna il periplo della maggiore isola di un arcipelago Stato frantumato in 15 tra atolli e piattaforme vulcaniche – con appena 15mila abitanti – disseminati in due milioni di chilometri quadrati di oceano, a sud del Tropico del Capricorno, a metà strada tra Tahiti e Samoa. Un’isola dominata da picchi e foderata di foresta pluviale: si attraversa il suo interno camminando su un sentiero tra fichi strangolatori, liane e felci arboree.

Un mondo trasognato con i giorni scanditi dal tonfo sordo del frutto del pane che si schianta a terra, con fertili terreni vulcanici che danno piante come il taro (un tubero ricco di carboidrati che può superare i dieci chili): dove la generosa natura tropicale induce più alla pigrizia che al lavoro. Lo standard di vita sembra occidentale, ma c’è un distratto rapporto con il denaro: non esiste proprietà immobiliare, terra e case appartengono al clan che le assegna a seconda dei bisogni.

Non c’è speculazione edilizia, ma nemmeno sviluppo e tanti isolani migrano in Nuova Zelanda: le loro rimesse sono la prima voce dell’economia, in un Paese che è stato più volte sull’orlo della bancarotta, senza che i suoi abitanti abbiano mai perso la flemma.

Il traffico è formato soprattutto da moto, guidate spesso da formose donne polinesiane che indossano solo il pareo e offrono passaggi ai visitatori impegnati a girare l’isola a piedi. Le stesse donne che la domenica cantano le lodi al Signore nelle chiese della Cook Islands Christian Church con in testa leziosi cappelli di pizzo. Qui la religione si mescola a scaramanzia e culto dei morti. Eredi dei navigatori maori giunti da Samoa, gli isolani coniugano la fede importata dai missionari inglesi con i miti polinesiani. Poco o nulla resta delle marae – i luoghi d’incontro spirituale maori – ma ovunque s’incappa in statue di Tangaroa (dio del mare e della creazione) munito di un gigantesco fallo. Gli antenati sono seppelliti nel cortile di casa. E il fervore mistico ha bisogno di molteplici risposte: fornite da una decina di diverse confessioni, oltre che da una pletora di sette.

Un microcosmo polinesiano che il 4 agosto festeggia sessant’anni di indipendenza dalla Nuova Zelanda, da cui ancora dipende per difesa e politica estera. Evento celebrato – dal 25 luglio al 5 agosto – mettendo in scena elementi di cultura maori e contaminazioni occidentali. Sfilate di carri, suoni di percussioni, danze, regate, gare sportive. E la O’ora, la cerimonia dell’offerta testimone della simbiosi con il mare e le sue divinità, riprodotte nei tiki, le sculture in legno sparse nell’arcipelago. Mentre banchetti servono piatti locali: ika mata (pesce crudo marinato in latte di cocco), eke (polipo speziato), rukau (stufato di foglie di taro), carni e pesci cotti nell’umu, la buca scavata nella sabbia sotto un fuoco di legna.

Rarotonga racchiude anche il mito del brigantino Yankee. «A vederlo sugli scogli ho provato lo stesso dolore di tutti gli avventurieri dei Mari del Sud» confessò Hugo Pratt dopo la sua visita nell’isola sulle tracce del famoso bialbero. Per Pratt lo Yankee incarnava tutti i miti dell’esplorazione nel Pacifico. In Avevo un appuntamento tracciò il parallelo tra il suo nugolo di vele bianche e il Bounty di Bligh, il Boudeuse di Boungainville, l’Endeavour di Cook, L’Astrolabe di La Pérouse e il Bonito narrato da Conrad.

Costruito in Germania nel 1912 come nave-scuola, il brigantino passò all’Inghilterra come bottino di guerra. Trasferito nel Pacifico, servì nel 1957 a Luis Marden per ritrovare i resti del Bounty, la nave del più leggendario ammutinamento. E il «National Geographic» lo usò per realizzare reportage tra le isole di Polinesia, Melanesia, Nuova Zelanda e Australia. Finché nel 1967 s’incagliò nella barriera corallina che circonda Rarotonga. E lì lentamente colò a picco. A Pratt, morto 30 anni fa a Puy sul lago Lemano nel canton Vaud, il veliero ispirò Una ballata del mare salato, una delle sue più famose strisce, nella quale ubicò a Raroraro la casa di Corto e Rasputin.

Aitutaki, 141 chilometri a nord di Rarotonga, è il miraggio balneare delle Cook. È formata dai resti di un vulcano sommerso, circondati da una scogliera di madrepore che imprigiona una laguna blu. Ci s’immerge e si fa snorkeling in fondali popolati di coralli, tartarughe e pesci tropicali. Per poi indugiare su uno dei ventun motu tempestati di palme che delimitano la laguna: isolotti formati da coralli emersi, fertilizzati dal guano e fecondati dalle noci di cocco portate dal mare. Come motu Maina con lingue di sabbia immacolata che si tuffano in acque turchesi.

Se Aitutaki è la meta più visitata di un arcipelago trascurato dal turismo di massa, nonostante prezzi molto più bassi della vicina Polinesia Francese, Atiu – nel Southern Group – è la sua perla segreta: vi approdano poche centinaia di turisti l’anno. Ha selvagge spiagge di sabbia bianca. A Orovaru Beach nel 1777 sbarcò James Cook, il navigatore inglese che diede il nome all’arcipelago. L’interno è coperto di vegetazione. I suoi 500 abitanti vivono sparsi nei villaggi sulle colline: qui più che altrove, una decina di chiese di altrettante fedi testimonia l’unicità religiosa dell’arcipelago.

Un vulcano emerso dal mare formò Atiu undici milioni di anni or sono, il suo crollo creò i rilievi centrali, circondati 100mila anni fa dai coralli. Tra barriera e alture interne si estese una pianura con laghi e grotte calcaree (con stalattiti e stalagmiti) coperta da macchia tropicale, mentre un nuovo reef circondava l’isola. Le caverne, usate per secoli come tombe, conservano resti funerari.

Chi cerca l’avventura s’imbarca invece sul promiscuo cargo passeggeri di Taio Shipping che raggiunge il remoto Northern Group. Sei atolli – Manihiki, Penrhyn, Pukapuka, Rakahanga, Nassau e Suwarrow – formati da lingue di sabbia bianca foderate di palme che circondano lagune blu. Cartolina convincente ma difficile da raggiungere. Air Rarotonga in teoria vola a Manihiki, Penrhyn e Pukapuka: oggi i voli non sono disponibili, domani chissà. Manihiki è l’atollo più noto con quaranta motu attorno a una laguna larga quattro chilometri, dove si coltivano le perle nere: ospita l’unico resort, nelle altre isole si alloggia in case private. La laguna di Penrhyn è chiusa tra centinaia di minuscoli motu. A Pukapuka tre isole galleggiano in una barriera a forma di fionda. Suwarrow ha una laguna larga quindici chilometri in cui si perdono rari frammenti di terra: nelle acque che la circondano sono affondati otto galeoni spagnoli.

Taio Shipping raggiunge ogni due mesi Manihiki, Penrhyn e Rakahanga. Ferma in ogni scalo almeno 24 ore per carico e scarico merci: il tempo utile per visitare l’atollo. L’arrivo del cargo è il maggiore evento sociale e richiama al porto tutta la popolazione, che ha influenze samoane. Le altre isole non sono più servite perché troppe navi si sono incagliate tra i coralli, è stato impossibile recuperarle e il servizio è stato sospeso più volte.

Per decenni l’unico collegamento tra il Northern Group e il resto del mondo è stato l’Avatapu. Un mercantile, lungo 35 metri, su cui si dormiva in cuccette ricavate nelle sponde dello scafo: zero privacy tra legno marcio e ferro arrugginito. Quando viaggiai sull’Avatapu, il capitano era una donna hawaiana sui sessant’anni, l’equipaggio era formato da un gruista sui 200 chili, un eccentrico cuoco gay, un marinaio rasta e un paio di macchinisti più ordinari: sembravano usciti da un racconto di Jack London. Hugo Pratt avrebbe trovato l’ispirazione per una nuova avventura di Corto Maltese.