In vista della 78esima edizione del Locarno Film Festival, due restauri importanti trovano spazio nel programma: I cannibali di Liliana Cavani e Anno uno di Roberto Rossellini. Film diversi, ma entrambi legati a una riflessione sul rapporto tra individuo e Stato, tra visione politica e tensione morale. Il primo, selezionato dalla giuria di Locarno Heritage (vedi di fianco), il secondo scelto dal direttore artistico del Film Festival, Giona A. Nazzaro, con il quale abbiamo parlato del senso contemporaneo del restauro, dell’autorialità, della funzione civile del cinema. Ne è emersa una visione che è insieme dichiarazione d’amore per la settima arte e difesa accorata del suo ruolo nel mondo.
Giona A. Nazzaro, lei supervisiona anche il progetto Heritage: in che modo il festival bilancia il valore artistico e storico dei film restaurati con la necessità di restituirli al contesto culturale di oggi?
Il mio approccio al patrimonio cinematografico è curatoriale, non filologico. Il cinema per me è sempre al presente. Se vedo per la prima volta un film di Murnau del 1920 nel 2025, quel film entra oggi nel mio orizzonte e dialoga con l’audiovisivo contemporaneo. In questo senso, anche un film «vecchio» si attualizza. Quindi, quando devo decidere cosa recuperare o riproporre, mi concentro soprattutto su come mettere in relazione al presente le opere che mi interessano personalmente.
Spesso si dice tuttavia che alcuni film «invecchino» meglio di altri?
Non sono d’accordo. L’idea che un’opera «regga» è una categoria merceologica. Un film può portare i segni del tempo nel quale è stato concepito, ma non è vecchio: è solo il riflesso di un contesto. Quindi, voglio dire, se oggi guardo un film degli anni Trenta in cui compaiono certi equilibri di genere – atteggiamenti di galanteria verso le donne, rappresentazioni che oggi potremmo giudicare superate o retrive – non significa che quel film sia in sé portatore di quei valori. Il film è, anche solo in superficie, lo specchio del mondo in cui è stato realizzato. Ma anche questo vale solo fino a un certo punto, perché il fatto filmico, l’opera in sé, è qualcosa di più complesso e sfuggente rispetto a una semplice lettura sociologica.
In questo senso, i film diventano una sorta di macchina del tempo?
Se si guardano le commedie di Lubitsch, ci si accorge che i rapporti tra i sessi sono tutt’altro che lineari o convenzionali. Oppure, se si pensa al cinema dei «telefoni bianchi» (ndr. filone degli anni 30 e i primi del 40 durante il fascismo) – così spesso liquidato con sufficienza – e ai film di un regista geniale come Mario Camerini, è evidente che, pur essendo opere pienamente calate nel loro tempo, le menti che le hanno concepite erano già rivolte al futuro. Quindi sì, magari raccontano il presente di allora, ma lo fanno con uno slancio che guarda oltre.
Si intuisce una forma di affetto per le opere meno «perfette»…
Sì, provo grande tenerezza, interesse, gratitudine, soprattutto nei confronti delle cose che sono invecchiate male, perché considero questi lavori sempre un po’ come un’infanzia dell’espressione artistica. Per cui mi permettono di capire meglio alcuni dettagli dell’epoca, rispetto a quello che possono fare dei capolavori assoluti. Un capolavoro assoluto è l’espressione di una individualità particolare, a suo modo unica, che produce qualcosa che scavalca il suo tempo, e quindi è sempre attuale. Invece gli oggetti che rimangono in qualche modo fermi nel loro tempo mi danno anche il senso di un lavoro, di un’industria culturale. È estremamente interessante, ma non da un punto di vista sociologico, proprio da un punto di vista poetico, narrativo.
Vale solo per i classici, oppure per tutti i film?
Quando guardo i film cosiddetti commerciali degli anni Cinquanta, Sessanta, vedo l’immagine di un’Italia che faceva i conti con una modernità vissuta in maniera conflittuale, con una società tradizionale alle spalle che veniva quasi in maniera forzata un po’ dimenticata, una modernità che però non si capiva bene cosa fosse. E sono proprio i film che più portano i segni, chiamiamoli pure crudelmente «i limiti» del loro tempo, a rendere tutto questo più evidente. A volte basta uno scorcio di città, un dettaglio qualsiasi, per sentire che quei film raccontano qualcosa di essenziale. È per questo che mi sento molto legato anche a queste opere: perché mi parlano del presente. Per me, tutto è sempre nel presente.
L’autorialità è ancora un’idea valida oggi? O è sempre il risultato di un sistema più ampio di relazioni?
L’autorialità è un concetto da prendere con un po’ di prudenza: personalmente credo alle individualità che sono portatori, portatrici di una visione, questo è inevitabile, però è anche vero che lo stesso Fellini, ragazzo di genio riminese, senza Roma e senza Cinecittà e senza il Marco Aurelio e senza Flaiano e senza un ciociaro come Marcello Mastroianni, sarebbe un po’ meno Fellini. E questo non significa voler privare Fellini di meriti indiscutibili, significa che anche l’autorialità è un concorso di fattori. L’autore si afferma quando riesce a trasformare tutti questi elementi in componenti che diventano solidali con il suo progetto. L’autorialità è una strategia che si afferma anche nei confronti delle difficoltà industriali, penso alla testardaggine di Sergio Leone che dal primissimo film all’ultimissimo ci ha messo progressivamente sempre più tempo a farli perché voleva che fossero solo fatti in un certo modo, però poi mi commuove anche moltissimo la genialità e l’umiltà di Mario Bava che faceva film in continuazione, sebbene venissero considerati film di consumo, o a stento registrati come film interessanti, mentre oggi invece sono considerati tra i film più importanti del cinema mondiale.
E in questo contesto, che ruolo ha il restauro? Può essere considerato parte di questa «costruzione collettiva» dell’opera?
Il restauro, per me, è profondamente legato al concetto di «rivedere». E il rivedere ha a che fare con il revisionismo – ma non nel senso negativo, politico e retrivo a cui siamo abituati, quello che riabilita personaggi impresentabili. No: revisionismo nel senso letterale del termine, cioè, tornare a vedere. Restaurare significa rendere possibile questa nuova visione, riportare le opere in vita.
Quindi il restauro è anche un atto etico?
Sì, profondamente. Viviamo in un mondo che distrugge le vite e l’ambiente: restaurare un film è un atto di resistenza culturale. Ho una gratitudine immensa per i «Frankenstein senza nome» che, nelle cineteche, lontano dai riflettori, recuperano copie, negativi, frammenti, per ricostruire interpositivi e internegativi. Salvano la memoria del lavoro umano.
I due film restaurati che proporrete quest’anno rimettono entrambi al centro il rapporto tra individuo e Stato. I cannibali evoca la disobbedienza, Anno uno la costruzione. Pensa dunque che si senta ancora il bisogno di questi due modelli di resistenza?
C’è bisogno di molti più modelli di resistenza, perché purtroppo oggi le tirannie sono numerose e frammentate. Non siamo più nel buon vecchio XIX o XX secolo, in cui i modelli di tirannia erano uno o due. Oggi ne esistono moltissimi, spesso di tipo asimmetrico.
Ci parli di Anno uno…
Il motivo per cui ho scelto di restaurare Anno uno è che, da rosselliniano, non passa giorno senza che pensi a come Rossellini potrebbe rimproverarmi. Cerco quindi di capire cosa potrei fare per, almeno, meritarmi il suo perdono. Faccio una parentesi: Rossellini ha inventato l’Italia, tanto quanto Mazzini o Garibaldi. Con Roma città aperta e Paisà ha costruito un’idea di Paese libero, giovane, democratico. Con Anno uno ha mostrato la fatica di questa costruzione. È un film sull’umiltà del fare, e sul senso del limite…
…del costruire una democrazia.
Rossellini realizza Anno uno in un’Italia attraversata da fortissime convulsioni politiche, che producono una radicale contrapposizione nelle strade, nelle scuole, nei luoghi della cultura. Anno uno è un film che non viene compreso nel suo tempo, perché Rossellini sceglie di mettere al centro la figura umana, esistenziale e politica di Alcide De Gasperi, padre spirituale – e non solo – della Democrazia Cristiana.
Il film è prefinanziato dall’editore Rusconi, considerato all’epoca un uomo di destra, e persino Renzo Rossellini, che abbiamo premiato qui a Locarno qualche anno fa, si esprime con parole durissime contro il padre. All’epoca, infatti, Renzo era impegnato a sinistra, nelle radio libere e nei movimenti.
E così il lavoro su quel film passa inosservato. Eppure, Anno uno è un’opera di modernità assoluta. A mio giudizio, la sua influenza si estende anche al cinema portoghese di Manuel de Oliveira: nel modo in cui usa la città e gli interni, nelle ellissi, nel montaggio, nella recitazione distaccata, nell’esibizione consapevole dell’artificio cinematografico. Tutti elementi che allora vennero fraintesi come goffaggini, e che oggi invece possiamo riconoscere per ciò che sono: scelte stilistiche radicali.
…anche nel rappresentare De Gasperi?
Quello che mi interessa molto, nel modo in cui Rossellini rappresenta De Gasperi, è che mette in scena un uomo profondamente cattolico, che dialoga con sua figlia – ma che, allo stesso tempo, è profondamente laico. La sua moralità religiosa si traduce in un rispetto altrettanto profondo per l’altro, nel confronto politico e dialettico. Non c’è mai il tentativo di imporre le proprie convinzioni. Per me, questa è una lezione di morale.
E, in fondo, I cannibali, contengono gli stessi elementi.
Contengono gli stessi elementi perché I cannibali, rivisto oggi, è uno di quei film altamente profetici. Per anni ci siamo detti: «è un film un po’ datato». Poi arrivano le deportazioni forzate di Trump, e all’improvviso le scene ambientate a Downtown Los Angeles sembrano uscite da I cannibali. Quello che ci pareva superato, improvvisamente non lo è più. E il sentire di Liliana Cavani – un sentire religioso, nel senso più profondo del termine: empatico, etico, morale – torna con una forza ancora maggiore. Anche grazie alle musiche di Morricone che sono straordinarie – tra le cose più belle mai composte da lui. È un film che non ha perso nulla della sua urgenza.
A suo giudizio – anche nel cinema – c’è bisogno di tornare a credere in qualcosa?
Mettiamola così: da persona non credente, ho un enorme rispetto per la religione, intesa come forma di compassione, empatia, riguardo per ogni forma di vita – vegetale, animale, umana. Quel tipo di pensiero – religioso o spirituale – porta con sé una ricchezza. L’Islam è una religione profondamente spirituale, anche se a volte è presa in ostaggio da fazioni violente, che ne svuotano il senso.
E aggiungo: vedo una forma di spiritualità anche nel materialismo storico. Ancorarsi all’essere umano e al suo lavoro significa avere un rispetto profondo per la vita.
Quindi non è tanto importante in cosa si crede o se si crede, ma come si mette in circolo quel patrimonio di idee. Al servizio di un futuro condiviso. Di una comunità.
Questi due film risuonano, amplificano oppure vanno in controtendenza con i temi che attraversano la 78esima edizione del Film Festival?
Sono naturalmente allergico ai «fili rossi» e ai temi imposti, però lo spirito del tempo ci attraversa inevitabilmente. Guardando indietro, si nota come molte cose dialoghino tra loro senza forzature.
Verranno presentati come documenti del loro tempo o come specchi (forse deformanti) del nostro?
Guardi, da cinefilo, per me i film vengono prima di tutto: il cinema è il punto di partenza. Ma è chiaro che non esistono film neutri – il cinema non lo è mai stato. Anche le opere più apparentemente innocue riflettono il tempo in cui sono nate.
A volte provo a rifugiarmi nell’idea che il cinema sia solo intrattenimento, perché è così che l’ho scoperto: per me era un modo per sfuggire all’ambiente familiare, alla scuola. Ma poi mi accorgo che non era solo svago: era disobbedienza, discontinuità. Credevo di andare a vedere un western di serie B, e invece stavo già facendo politica.
Quindi non tanto resistenze ai tempi che viviamo, quanto una forma di resistenze individuali?
Non la metterei in termini così personali. Per me il cinema è un paese. Non una nazione, che è un concetto più rigido e complicato, ma proprio un paese: con le sue dimensioni umane, con tante lingue, comunità diverse, senza frontiere. Un luogo orizzontale, dove ci si può ritrovare. E forse [sorride] anche con un certo clima mediterraneo.