La condizione delle donne beluci, iraniane, afghane e gli abusi in nome degli affari
Prima sono stati gli uomini a scomparire. Attivisti, studenti, professori, intellettuali, politici. Giovani, vecchi, a volte bambini. E le donne hanno aspettato. Sedute per giorni davanti alle stazioni di polizia. Oppure hanno camminato. Camminato come le madri di Plaza de Mayo, decenni fa, sotto il regime dei colonnelli argentini. Hanno camminato per chiedere notizie. Da Quetta a Islamabad, portando le foto dei padri, dei fratelli, dei mariti. Stringendo tra le mani le loro foto. Uomini che a volte tornavano ma da morti: corpi torturati, irriconoscibili, gettati in fosse comuni sigillate in fretta o abbandonati a marcire sui tetti degli ospedali, sotto il sole. All’inizio erano attivisti, scrittori, studenti. Il loro crimine: chiedere che le risorse del Belucistan restassero al Belucistan. Poi la protesta è cresciuta, si è allargata. Il Comitato Baloch Yakjehti, nato per protestare l’uccisione della madre di un attivista nel 2020, è diventato un vero e proprio movimento. Pacifico, ostinato, guidato da donne che hanno rifiutato il silenzio. Il Pakistan ha risposto da par suo: arresti, lacrimogeni, manganelli. Ma loro hanno continuato a parlare. E quelle voci si sono rivelate, per l’esercito di Islamabad, più pericolose delle armi. Ma ora sono le donne, a sparire.
Il rapimento di donne e bambini in Belucistan – provincia appunto pakistana – non è una novità. Per anni le donne sono state sequestrate, torturate, usate come schiave sessuali dai militari, poi gettate via. Ma di dati ce ne sono pochi: perché le donne hanno paura di parlare o perché sono morte. La novità è che adesso è diventata una pratica sistematica. Solo negli ultimi tre mesi, almeno una decina di donne beluci sono state arrestate, rapite o sono svanite. Il 29 maggio Mahjabeen Baloch, 24 anni, sopravvissuta alla poliomielite, è stata prelevata dalla sua stanza in un ostello a Quetta, prima dell’alba. Nessuna notizia, da allora. Prima di lei, a marzo, avevano arrestato Mahrang Baloch, candidata al Nobel per la pace, leader della lunga marcia verso Islamabad. Poi Sammi Deen Baloch, Gulzadi Baloch, Beebow Baloch. Sammi è stata liberata dopo pochi giorni. Le altre sono ancora in prigione. In carcere hanno subito maltrattamenti, vessazioni, la negazione di ogni diritto. Persino nei bagni e nelle celle sono state piazzate telecamere che violano la loro dignità. Le visite dei familiari e degli avvocati sono state proibite. A inizio luglio, a Karachi, hanno arrestato una minorenne, colpevole di aver marciato contro l’ennesima esecuzione extragiudiziale. Non si hanno più sue notizie. E nel vuoto lasciato dallo Stato si è infilato anche lo Stato Islamico, che parla la stessa lingua dell’esercito pakistano, dei talebani, degli ayatollah.
Le attiviste beluci ora vivono sotto una doppia minaccia: lo Stato che le perseguita per aver chiesto diritti, i jihadisti che le braccano per aver rifiutato la teocrazia patriarcale. La stessa che poco oltre il confine, in Afghanistan, ha murato le donne nei burqa e nelle case. La stessa per cui la Corte dell’Aia ha emesso un mandato di arresto contro i talebani per la «persecuzione di donne e ragazze», mandato che resterà lettera morta, come gli altri per terrorismo emessi dall’Onu. La stessa teocrazia, la stessa cultura che proietta la sua ombra nera anche sull’Iran, dove la «pace» siglata per interesse commerciale da Donald Trump ha calpestato le speranze delle donne. Accecate, torturate, imprigionate, stuprate e uccise soltanto per essersi ribellate al «cencio medievale» imposto dalla religione al potere. La stessa che, più a est, in Bangladesh, comincia a vietare sport e libertà alle ragazze, pena botte e isolamento. La stessa che ha giustificato lo stupro e la schiavizzazione delle yazide in Siria e Iraq. Quella che tenta di cancellare la memoria degli stupri, delle torture, delle uccisioni delle israeliane del 7 ottobre 2023. Ma sarebbe un errore raccontare tutto questo come una questione di diritti umani, di scontri di religione o di culture. Questa è politica. Geopolitica, giocata sul corpo delle donne.
La «Nuova via della seta» cinese avanza e con lei avanzano gli abusi. In Medio Oriente le alleanze si rimescolano in nome degli affari e la religione diventa il sudario soffocante di ogni impeto di libertà, la coperta per giustificare ogni genere di abuso. Il mondo guarda soltanto per assicurarsi che il petrolio scorra, il gas venga estratto, i contratti firmati, i minerali rari finiscano nelle «mani giuste». Non vuole vedere chi viene trascinato in un furgone, o quale ragazza non rientra più in ostello. Ma dovrebbe. Perché quando le donne cominciano a scomparire qualcosa di essenziale si è già rotto. Il tessuto sociale si lacera in modo irreparabile. E non si ricuce né con accordi né pranzando con dittatori, né mandando altre armi agli assassini di Stato. Tantomeno col silenzio. Prima sono spariti gli uomini. E le donne hanno aspettato. Poi hanno parlato. E le hanno fatte tacere. Presto il mondo si accorgerà di quanto possa essere potente la voce del silenzio.