Le Alpi, potente minaccia e puro idillio

by Claudia

A pochi giorni dalla festa nazionale una riflessione sulla montagna, le sue logiche a volte feroci e la gente che vi abita

La montagna attira e respinge. Per molti è rifugio per sottrarsi all’afa della pianura, una sorta di Eden della frescura. Ma le vette nascondono anche insidie, e spesso franano a valle provocando disastri, sommergendo case, persone e animali. Ricordiamo i casi più recenti: Bregaglia 2017, Mesolcina e Vallemaggia 2024, Blatten quest’anno. Ma sono numerose le calamità che lungo i secoli hanno funestato l’arco alpino, dall’Est all’Ovest, dalle Alpi Marittime alle Alpi Giulie. Dopo ogni evento si affaccia il dilemma: ricostruire per tornare oppure rassegnarsi all’esodo? Hanno sollevato polemiche alcune sortite che prospettavano l’abbandono delle vallate e dei villaggi non più considerati abitabili. Tuttavia c’è da chiedersi se alla fine l’addio alle terre alte non generi più insicurezza che tranquillità per chi sta in basso, nei fondivalle e negli agglomerati. Nel corso dei secoli, tutte le comunità alpine hanno dovuto fare i conti con la furia degli elementi costruendo ripari, canali, terrapieni e vasche di contenimento. L’esistenza di un folto e sano bosco di conifere a monte degli abitati garantiva un certo grado di protezione, come già il filosofo tedesco Hegel aveva osservato visitando nel 1796 alcune località nella valle di Orsera: «La nostra attenzione fu anche richiamata su un boschetto di abeti, situato sulle pendici di un versante del Gottardo, di cui è vietato tagliare anche un solo ramo, pena la perdita della libertà, in quanto gli abitanti lo considerano come una sorta di parete contro le slavine ch’esso arresta e di cui spezza la forza».

Con Hegel siamo alle porte del nuovo secolo, l’Ottocento: fase che avrebbe ispirato una notevole pattuglia di pittori e illustratori dallo spirito romantico, incantati dal grandioso spettacolo della natura. Di fatto il filosofo tedesco ricalcava le orme dei dotti, dei «savants» che da tempo si erano avventurati nel labirinto alpino con l’habitus del ricercatore. Fino al Settecento la montagna incuteva timore: era considerata ostile, impenetrabile, minacciosa, luogo inospitale e popolato da genti infide. Con il Secolo dei lumi la paura svanisce a beneficio della conoscenza, cosicché le Alpi diventano meta di escursioni e terreno di scoperte scientifiche nel campo della fisiologia, della botanica, della climatologia. Tra questi assurge a notorietà europea il bernese Albrecht von Haller (1708-1777), autore, ancora giovanissimo, di un poema destinato a larga fortuna editoriale: Die Alpen, pubblicato nel 1729 e quasi subito tradotto in francese. Haller, che fin dall’infanzia sbalordisce i contemporanei per la sua vasta e acuta intelligenza, da autentico «Gelehrte» sprofondato nei libri, eleva alla montagna che lui non cessa di perlustrare un vero e proprio inno in cui confluiscono miti, suggestioni, l’amore per la patria (di cui festeggiamo tra qualche giorno i natali). Le Alpi e la Confederazione dei tredici Cantoni formano un tutt’uno, non è possibile disgiungerle, talmente intimo e organico è il loro rapporto, nato nel tardo Medioevo e poi rinsaldato nel tempo. C’è innanzitutto il dato naturalistico che caratterizza il Paese: i monti, le rupi, i laghi, i ghiacciai, le spumeggianti cascate; c’è il mondo animale che lo presidia (cervi, caprioli, stambecchi, marmotte) e c’è infine il popolo che lo abita, gli alpigiani, i pastori che non temono la fatica e che anzi svolgono le loro attività agresti in letizia, tra feste e giochi, e lontano dalle vacue ambizioni affaristiche e dal fumo delle città.

La montagna come grembo della virtù, la città come sentina di vizi. Haller ritorna più volte nel poema su questa contrapposizione, che da quel momento diventerà uno dei temi ricorrenti nella copiosa pubblicistica di stampo patriottico, e questo fino ai giorni nostri, passando per i fortunatissimi racconti di Johanna Spyri (Heidi). Da un lato i guasti dell’industrializzazione che trasformava i quartieri operai ai piedi delle ciminiere in luoghi mefitici e malsani; dall’altra la salubrità della vita alpina, fonte di pace e di serenità. Ma nei versi di Haller è presente anche un abbozzo di una cultura politica nazionale. Ossia un elogio dell’autogoverno in continuità con le gesta di Tell, che secoli prima aveva «spezzato il giogo» dando prova di «fedeltà, coraggio e concordia». Anche qui Haller anticipa una riflessione che sarà centrale nei decenni successivi nel pensiero degli illuministi, e in particolare nell’opera di Rousseau. Il tema è quello della partecipazione diretta alla gestione della cosa pubblica, esercitata attraverso il «raduno all’ombra di ampie querce». Rousseau, che conosceva il poema dell’erudito bernese, inserisce questo argomento nella sua opera più celebre, Il contratto sociale (1762). Scrive il filosofo ginevrino: «Quando si vedono nel popolo più felice del mondo schiere di contadini sbrigare gli affari di Stato sotto una quercia, e regolarsi sempre saggiamente, come ci si può trattenere dal disprezzare le raffinatezze delle altre Nazioni, che si rendono illustri e miserabili con tanta arte e tanti misteri?».

Rousseau conosceva la vita delle Corti francesi, lo sfarzo e le dissolutezze dei monarchi e dei loro accoliti. Nell’altra sua opera famosa, Giulia o la nuova Eloisa, pubblicata nello stesso anno, riferisce dei suoi soggiorni in Vallese, dei dialoghi con i montanari che disdegnano il denaro e si accontentano di quanto la natura offre. Se dovessero avere più soldi, nota Rousseau, sarebbero inevitabilmente più poveri. Nessun lusso ma una condotta frugale sul piano dell’uguaglianza tra domestici e padroni, che siedono allo stesso desco. «La stessa libertà regna nelle case e nella repubblica, e la famiglia è l’immagine dello Stato».

Haller affronta anche la questione della disuguaglianza, della disparità («Unterschied»). Che lui biasima, definendola un’invenzione dell’orgoglio. Nel mondo alpino la disuguaglianza finisce per rendere schiava la virtù e nobilitare il vizio. L’autore, mosso dalla sua fede protestante, considera l’avidità disdicevole, un fattore corruttivo per la salute mentale delle popolazioni alpine, dove i favori non vengono scambiati «in attesa di compensi». Ancora una volta torna l’antitesi tra la campagna e la città, la prima sede di relazioni dolcemente armoniose, la seconda guidata dalla logica del guadagno. Sia pure per grandi linee, anche qui Haller anticipa contrapposizioni che saranno poi indagate analiticamente nella seconda metà dell’Ottocento dalla sociologia tedesca: città/campagna, società urbana/comunità rurale, con la prevalenza dello scambio monetario nel primo caso, del baratto in natura nel secondo. Haller come critico del capitalismo nascente? È solo un’ipotesi, che tuttavia trova molti riscontri nei versi giovanili di un genio universale quale fu Albrecht von Haller.

Bibliografia
Georg W. F. Hegel, Diario di viaggio sulle Alpi bernesi, Prefazione di Remo Bodei, Ibis, Como, 1990.
Albrecht von Haller, Le Alpi,A cura di Enrico Rizzi, Prefazione di Teresio Valsesia, Dadò editore, Locarno, 2024.
Jean-Jacques Rousseau, Il contratto sociale, Feltrinelli, Milano, 2010.

Keystone