Guerra in Ucraina, la Cina si considera parte in causa e condivide la visione di Vladimir Putin che non intende indietreggiare di un passo
I cinquanta giorni che Donald Trump ha concesso, il 14 luglio scorso, a Vladimir Putin per accettare la tregua in Ucraina, scadono il 2 settembre. Quel giorno, il presidente russo sarà in Cina, in visita da quello che si configura sempre di più come il suo principale alleato, Xi Jinping. Le voci su un possibile vertice a tre per ora vengono smentite da Pechino, ma la scadenza dell’ultimatum – sempre che di ultimatum si tratti, e non soltanto di una uscita mediatica del presidente americano – è comunque una coincidenza simbolica. L’invasione russa dell’Ucraina ha smesso da tempo di venire percepita nel mondo come soltanto un conflitto locale di due Paesi periferici, ma ora la partita diplomatica per cercare di fermarlo si sta espandendo a livello globale.
La scadenza dei 50 giorni infatti prevede l’attivazione, da parte degli Stati Uniti, di nuovi dazi contro la Russia e i suoi partner commerciali. Nel progetto della risoluzione del Congresso lanciata dal senatore repubblicano Lindsay Graham, i cosiddetti «dazi secondari» dovevano arrivare al livello astronomico del 500%, ma Trump per ora minaccia «soltanto» un 100%, anche perché in quel caso non deve chiedere l’autorizzazione ai parlamentari. Per Mosca non si tratta di una minaccia pesante: il suo interscambio con gli americani è di appena 3,5 miliardi di dollari, e riguarda essenzialmente materie prime critiche per gli Usa, come il titanio. Le sanzioni contro chi acquista petrolio e gas dalla Russia potrebbero invece rappresentare un colpo fatale: negli ultimi tre anni, le bombe cadute sulle città ucraine (e i chip importati per i droni da lanciare contro le case degli ucraini) sono state finanziate essenzialmente dal commercio con l’Asia. L’India, per esempio, ha aumentato la quota del suo approvvigionamento dalla Russia dallo 0,2% al 40%. Ma il ministro del Petrolio indiano Hardeep Singh Puri ha dichiarato che il suo Paese è «pronto a diversificare» in caso di necessità: un segnale sia a Mosca sia a Washington sul fatto che Delhi non ha intenzione di andare allo scontro.
Puri ha comunque dismesso le minacce di Trump come strumento diplomatico: «Alcune dichiarazioni vengono fatte solo per spingere i contendenti a mettersi d’accordo». Il problema è che una soluzione negoziale appare oggi totalmente fuori dal novero delle possibilità. Il terzo incontro tra le delegazioni della Russia e dell’Ucraina, tenutosi a Istanbul il 23 luglio scorso, è durato poco più di mezz’ora, il tempo minimo per constatare «posizioni estremamente distanti», come le ha definite il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov. Mosca non ha fatto nessun passo indietro rispetto alle sue condizioni che di fatto implicano la resa dell’Ucraina, con il passaggio alla Russia di quattro regioni (oltre alla Crimea) e la sottomissione politica e militare. Volodymyr Zelensky, dal canto suo, ha insistito per riprendere il negoziato soltanto allo scopo di mostrare a Donald Trump che non è l’Ucraina quella che evita la diplomazia (e per lo stesso motivo gli ucraini a Istanbul hanno insistito per un vertice tra Zelensky e Putin, ben sapendo che i russi avrebbero rifiutato).
Difficile parlare di un accordo, del resto, se Mosca rifiuta perfino una tregua provvisoria. Giugno ha segnato una escalation di attacchi e vittime, con il numero più alto dei morti civili dalla primavera del 2022, e luglio rischia di superare il record, con quasi il 10% dei droni utilizzati dalla Russia nel corso di tutta la guerra sparati in un mese. Il generale tedesco Christian Freuding avverte che l’industria militare russa sta funzionando a pieno ritmo, nonostante gli attacchi dei droni ucraini mirati a distruggere fabbriche e magazzini. Secondo il responsabile degli aiuti all’Ucraina del Bundeswehr, presto anche raid di 2000 droni per notte potrebbero diventare realtà. Rispetto ai 300-500 lanciati oggi, si tratterebbe di uno sciame quasi impossibile da bloccare con le difese anti-aeree esistenti in Ucraina, e mentre lo «Spiegel» annuncia che i tanto agognati Patriot americani non arriveranno prima dell’anno prossimo, Freuding avverte che sono troppo costosi per «sprecarli» contro i droni. Che intanto puntano anche a case, mercati, scuole, ospedali e centri commerciali: bersagli civili, in una campagna che mira a spaventare e indebolire gli ucraini. Sul terreno intanto prosegue l’offensiva nel Donbass: di recente i primi infiltrati russi sono stati avvistati nella città di Pokrovsk, snodo logistico importantissimo per le difese ucraine. L’assedio a Pokrovsk, iniziato già un anno fa, si sta stringendo, e anche se le perdite russe, secondo le stime degli ucraini e degli occidentali, sono vertiginose, l’esercito del Cremlino avanza lentamente tutti i giorni, anche solo di 50 metri.
L’escalation militare è stata la risposta di Putin alle aperture della Casa Bianca, con il risultato che la tanto auspicata svolta di Trump rispetto all’Ucraina appare già in corso. Il presidente americano si è dichiarato «deluso» da Putin e dal suo rifiuto ad accettare una tregua anche provvisoria, dopo di che il blocco alle forniture di armi Usa a Kiev è stato tolto (anche se ora sono gli europei a pagarle), si è informato con Zelensky sulla capacità degli ucraini di colpire Mosca, e ha promesso le nuove sanzioni in 50 giorni. Un tempo che Putin ovviamente utilizzerà per cercare di avanzare il più possibile nel Donbass, prima di venire forse fermato dalla crisi economica russa, della cui imminenza ormai parlano anche fedelissimi come Valentina Matvienko, la presidente del Senato russo, che ha promesso drastici tagli alla spesa pubblica nei prossimi mesi per far fronte alle spese militari, aumentate ormai al 40% del bilancio.
E questo riporta l’attenzione al ruolo di Pechino. I Paesi che commerciano – o si prestano al commercio sommerso di altri Stati – con la Russia sono numerosi, ma uno solo è davvero cruciale non solo per le casse del Cremlino e i consumi dei russi, ma anche per il potenziale bellico. La dichiarazione fatta un mese fa dal ministro degli Esteri cinese Wang Yi ai diplomatici dell’Ue – «La Cina non può accettare una sconfitta della Russia nella guerra contro l’Ucraina» – mostra che i cinesi non si limitano più a osservare, ma si considerano parte in causa, e condividono alla fine la visione di Putin della guerra come un conflitto dell’Occidente contro l’Oriente/Sud del mondo. Per far tacere le armi non bisogna più soltanto costringere Putin, ma anche convincere Xi Jinping.