Prezzi bassi e asticella alta per la carne, tutta

by Claudia

Una nuova geografia del gusto si delinea nei ristoranti europei, dove le T-bone dominano le carte, gli allevamenti puntano sulla qualità, e il pesce, troppo caro, resta importante ma ai margini

A livello europeo, una delle specializzazioni dei top ristoranti in grande crescita è quella della carne bovina. Ma bisogna fare alcune premesse.

Di carne se n’è sempre mangiata nei ristoranti – sempre nel senso dell’ultimo secolo quando la ricchezza di tutti i paesi europei è cresciuta. Ma era prevalentemente carne «povera» – che sia chiaro, spesso, a parità di animale, è anche più buona di quella dei tagli ricchi, ma questo è un altro discorso. Quindi polpette, fettine, tante frattaglie, che allora costavano poco, trippa su tutte, e simili. Mentre i filetti e i controfiletti, da sempre l’epitome dei grandi piatti di carne, latitavano: ed erano peraltro sempre costosi, con un cattivo food cost.

Ovviamente eccezioni c’erano anche se, pur non avendo statistiche precise, si concentravano in Inghilterra, pardon a Londra, allora il centro del mondo. L’altra eccezione erano i ristoranti di albergo e il progetto di cucina era basato sostanzialmente sulla cucina francese, quella che loro giustamente chiamavano internazionali, perché valorizzata con spunti di tutti, ricca di piatti di carni. Ovviamente li frequentavano tanti cittadini locali che cercavano un ambiente di gran tono, mentre nei ristoranti non d’albergo latitava (erano più o meno curati ma sempre trattorie; oggi per fortuna abbiamo tanti ristoranti non d’albergo di gran tono).

Poi, pochi anni fa, scoppia un evento epocale: finisce il boom del consumo di carne, la cui crescita era stata esponenziale dal dopo guerra ’39-’45 alla fine del secolo scorso. Finisce per tanti motivi, in seguito all’emergere dei vegani e vegetariani, fino alle ristrettezze dei criteri di allevamento negli allevamenti intensivi, e per tanti altri motivi. Inevitabilmente, in un mercato statico, dove la crescita non c’è, i prezzi si stabilizzano e si contraggono.

Per gli allevatori, e per i consorzi pubblici che tutelano e a volte certificano le carni, loro dotati di più o meno buoni uffici studi, non c’è scelta: puntare su vendere di meno ma più buono, a prezzi forse non ottimali ma accettabili.

Ci si mettono anche mamma UE e mamma Ocse, che liberalizzano il mercato delle carni – anche se l’importazione da quello che una volta si chiamava terzo mondo, ma anche dagli Usa, è ancora piena di paletti. Lentamente, e prevalentemente per l’alta gamma, incomincia ad arrivare carne da tutto il mondo. Soprattutto l’Angus, di origine scozzese, ma oramai allevata in tutto il mondo anglofono e anche altrove. E il wagyu, considerata giustamente la più buona carne al mondo, dalla perfetta marezzatura. È prodotto in tutto il Giappone ma anche altrove; wagyu è infatti il nome di una tecnica di lavorazione per cui chiunque può farne uso. Il super top è quello di Kobe, comunque, che si chiama Kobe beef – ed essendo un nome geografico, è tutelato. Tutto questo per testimoniare come in tutti i paesi la qualità della carne cresce.

Ci si mette anche il mercato del pesce, in pieno boom, che continua anche ora: ma a prezzi sempre crescenti, soprattutto per quelli di valore, relativamente facili da lavorare essendo di qualità – e infatti c’è un grande boom del crudo. Mentre lavorare quelli medi, beh non è un’attività alla portata di tutti.

Il risultato è che i patron dei ristoranti oggi si sono ritrovati con il pesce a prezzi quasi da fuori mercato, mentre le carni – anche quelle ottime – sono sempre più abbordabili: relativamente, sia chiaro, diciamo che erano care ma la loro immagine era alta, molto alta, quindi un grande rapporto qualità prezzo. La scelta di puntare sempre di più sulla carne non poteva che risultare la più logica.

Se il «tutta carne» vuol dire proporre solo piatti di carne, al centro del cuore restano i filetti e controfiletti, quindi le T-bone (nella foto). Definire la T-bone non è facile. Negli Stati Uniti esistono le T-bone e le Porterhouse. Entrambe includono un osso a forma di T con la carne su entrambi i lati. In linea di massima, le Porterhouse vengono tagliate dalla parte posteriore del lombo e includono più filetto, mentre le T-bone sono tagliate dalla parte più anteriore del lombo e contengono una porzione di filetto più piccola. Poi le Porterhouse sono più spesse, almeno 32 mm imporrebbe il Ministero dell’agricoltura statunitense, che invece accetta anche 13 mm per le T-bone.

La realtà ha spazzato via tutto questo: il nome T-bone si è imposto e oramai le bistecche alte con filetto e controfiletto si chiamano tutte T-bone. È un taglio che, nell’immaginario collettivo, è la sintesi perfetta della buona carne. È un taglio amato anche perché il prodotto è tenero e cuoce rapidamente. E qualunque ristorante che offre prevalentemente carne sa che il successo deriva dal proporre sontuose T-bone: poi magari i clienti non le ordinano, ma la loro presenza in carta alza il livello generale dell’offerta.

Grandi interpreti del «tutta carne» sono stati i latino americani, dove questa tradizione esiste da sempre. E i primi ad aprire in Europa sono stati loro. Molti argentini, molti brasiliani: e il rodizio, quello che noi chiamiamo churrasco (churrasco è la preparazione a base di carne cotta in spiedi che ruotano, però il servizio che taglia la carne direttamente sui piatti individuali si chiama rodizio, che è quindi uno stile di servizio e assolutamente non un piatto) è un grande simbolo del «tutta carne».

Quindi il boom c’è. E durerà, credo: alternative non se ne vedono.