Parlare con Gianluca Grossi significa inevitabilmente riflettere sul ruolo che un reporter di guerra assume nell’esercizio della sua professione, sugli aspetti etici, politici e umani che questa attività, tanto dura quanto complessa, comporta. Significa interrogarsi sul perché e sul come si racconta un conflitto, e riflettere, con profondità, sul mondo e su sé stessi.
Incontriamo Gianluca nel suo spazio di lavoro a Lugano: una stanza ampia e accogliente, luminosa, tappezzata di libri di ogni genere – segno della curiosità intellettuale con cui affronta la vita e del suo istintivo bisogno di raccontare la realtà.
Un bisogno, questo, che avverte fin dalla più giovane età: «Volevo raccontare la realtà nell’istante in cui prendeva forma davanti ai miei occhi per condividerla con chi stava a casa». Visti i presupposti, era quasi inevitabile che la vita lo conducesse a diventare reporter di guerra. «Questo mestiere ha dato un significato alla mia vita, l’ha colmata: facevo non soltanto ciò che avevo sempre sognato, ma anche la cosa giusta».
Dopo il dottorato in letteratura comparata a Zurigo, lavora tre anni alla RSI, per la quale realizza i suoi primi servizi all’estero. È in questa fase che avverte la necessità di diventare l’autore delle immagini contenute nei suoi reportage. Studiando i lavori dei maestri del settore e grazie all’insegnamento di alcuni colleghi, impara a utilizzare la videocamera e in seguito la macchina fotografica.
Decide di mettersi in proprio, scegliendo come base Gerusalemme e fondando la società di produzione Weast Productions. Collabora da indipendente con i canali della Televisione svizzera e con altre emittenti internazionali. Filma e fotografa i numerosi conflitti che affollano la scena mediorientale, ma non solo, con l’intento di testimoniare le atrocità che ogni guerra porta con sé, narrare la realtà e dare una voce e un’immagine a chi non sarebbe altrimenti visibile.
La responsabilità di un reporter, racconta Gianluca, scaturisce dall’urgenza di restituire alle persone coinvolte in una guerra, civili e combattenti e indipendentemente dai fronti, la loro umanità. Questo è un caposaldo del suo pensiero. «Le guerre si nutrono, fra le altre cose, della convinzione dei belligeranti di trovarsi di fronte non più a degli esseri umani, bensì a delle bestie, a insetti da schiacciare. Il compito di un fotografo è contraddire questa narrazione, che ha quale scopo farci credere che il campo di battaglia sia diviso in due: da una parte i mostri senza umanità, i pazzi criminali, dall’altra le vittime che meritano la nostra solidarietà. È indispensabile recarsi con gli occhi bene aperti da entrambe le parti di un fronte di guerra: si imparano molte cose».
Tra gli esempi: «La guerra ci permette di prendere la misura del possibile, di compiere l’esperienza di ciò di cui noi esseri umani siamo capaci, tutti e senza eccezioni. Si schiude allora una terra dentro la quale le categorie del bene e del male, di ciò che è giusto e ciò che non lo è, si rivelano fragili pietre di demarcazione di un confine che non esiste più. Sono insufficienti a descrivere ciò che accade e, soprattutto, a capirlo. Anzi, riducono la nostra abilità a vedere. Tuttavia, per non perdere la testa, di fronte agli orrori della guerra ci ostiniamo a suddividere la realtà in modo manicheo. Spesso veniamo esortati a farlo. È un sotterfugio», mentre «la guerra è abitata da esseri umani che sono, lo ripeto, capaci di tutto. La guerra non è buona o malvagia: è assurda. Le immagini devono restituire questa terrificante assurdità».
A maggior ragione quando si parla di vittime civili: «Le madri, i padri non combattenti, i bambini sono vittime della guerra e della sua assurdità, ma molto spesso, e quasi sempre inconsapevolmente, ce ne serviamo per dimostrare la disumanità di una (di una soltanto) delle parti in conflitto. È una visione viziata. Non ci permette di capire alcunché della guerra. Anzi, ci rende complici della sua continuazione».
In guerra, l’umanità si rivela dunque per quello che è: contraddittoria, spiazzante, impossibile da incasellare: «È esattamente l’umanità che abita noi, ma calata in una circostanza diversa. In guerra ho visto persone per bene compiere azioni che dimostravano il contrario e ho visto mascalzoni, o anche peggio, mettere a repentaglio la loro vita per salvarla a una madre e alla sua bambina. Ho incontrato ladri, assassini. Anch’essi erano civili, vittime della guerra».
Si finisce a parlare di immagini. Non tanto di quelle scattate, quanto di quelle guardate: «Ho riflettuto a lungo sullo sguardo che il pubblico posa sui civili, sulle vittime non belligeranti (considero vittime anche i belligeranti, ma è un altro discorso). È uno sguardo che ci concede un’esperienza impossibile da compiere frequentando i nostri simili in una situazione pacifica: l’esperienza della purezza e dell’innocenza. Quella che abbiamo dei civili in guerra, curiosamente, è una visione purificata dell’essere umano. Ci avvinghiamo alla speranza che lo scatenamento non abbia spazzato via tutto: per coltivarla siamo costretti a privare quelle persone della loro umanità, cioè delle loro contraddizioni, di tutto ciò che hanno fatto nella loro vita e, ancora di più, che sono o sarebbero capaci di pensare e di fare per sopravvivere, salvarsi. A un’immagine di guerra chiediamo conforto: abbiamo bisogno di credere in un’umanità integra, pura e innocente. Così, però, ci teniamo alla larga dalla complessità, e dalla verità».
Gianluca ha coltivato a lungo la speranza che, documentando insieme ai suoi colleghi gli orrori della guerra, sarebbe riuscito a fermarne almeno una: «Un giorno mi sono chiesto: quale senso ha alzare la macchina fotografica, accendere la telecamera se non mettere fine almeno alla guerra che stai raccontando? Era il solo significato che questo gesto potesse avere: indurre chi aveva il potere di farlo a fermare tutto. Zero. Non è andata così».
Dopo averla raccontata per molti anni, Gianluca oggi riflette sulla guerra. «Sappiamo tutto delle sue conseguenze: libri di storia, archivi fotografici in rete, le opere degli artisti, i social, dove spesso la guerra ci appare senza i filtri che i media impongono a loro stessi, producendo un racconto omogeneizzato, digeribile all’ora di cena, di colazione».
Così è nata l’esigenza di interrogarsi sul proprio lavoro e in particolare sul racconto della guerra: «Perché non riusciamo a non farla? Sapere quanto essa sia orribile non ci trattiene. Siamo degli imbecilli. Ho deciso di scriverlo, andando a scovare, denunciando e smontando le trappole che ci vengono tese per indurci a credere che la guerra risponda a una necessità e che sia inevitabile. Quante volte, e ancora in tempi recentissimi, ce lo siamo sentiti dire?». Gianluca riflette sulla scorta della vasta esperienza accumulata sul terreno e vuole spiegare perché «oggi ancora ci viene chiesto di credere che una guerra, di offesa o di difesa, di liberazione o di occupazione, non importa, possa essere considerata un’idea pensabile e una circostanza ineluttabile».
Un ragionare che ha trovato espressione in saggi, romanzi e in due pièce teatrali, come pure sul suo portale facciadareporter.ch. Leggere i suoi libri e frequentare il suo sito – che propone articoli, interviste, fotografie, riflessioni, così come pure l’attualità dai numerosi scenari attraversati da Gianluca e le riflessioni di persone che in quegli scenari vivono – aiuta di certo ad arricchire sguardo e pensiero di chi vi si sofferma.
Questo non è che il possibile riassunto di una parte della lunga e densa intervista avuta con Gianluca. Il breve spazio disponibile non ci permette di proporre nel suo insieme – e quanto invece sarebbe necessario – il pensiero dotto, onesto, chiaro seppur estremamente articolato del nostro interlocutore. Un pensiero dal quale si dipanano tante, tante immagini e storie. E tanta umanità.