Goldingen è un piccolo villaggio sangallese a 700 metri d’altezza sopra il lago di Zurigo. Circondato da prati e pascoli, un nucleo di vecchie e affascinanti case. Poco più in là un paio di strade con edifici più moderni. Segno di un certo sviluppo del paese, che da una decina di anni si è unito al più grande Eschenbach. Il suo motto: «Aria di campagna vicino alla città». Rapperswil-Jona è infatti a un quarto d’ora d’auto, Zurigo a meno di un’ora. Nelle ultime settimane però più che l’aria fine di campagna, a Goldingen si respira un’aria pesante. Il villaggio è infatti balzato agli onori della cronaca nazionale per un tema di quelli che spaccano l’opinione pubblica.
La scuola è in cerca di un nuovo insegnante, una sfida che può avverarsi complessa, considerata la mancanza cronica di docenti. Al concorso partecipa una giovane che ha concluso la formazione triennale. La donna è di religione musulmana e porta lo hijab (il velo islamico che nasconde capelli e collo), che vuole indossare anche durante le lezioni. Una richiesta che viene approfondita nel colloquio di assunzione. L’insegnante si dimostra professionale, conferma che seguirà i principi della legge scolastica e del programma d’insegnamento indipendentemente dalla sua religione e convince la commissione di essere la persona giusta. A non essere convinti sono però alcuni genitori, che scrivono alla direzione dell’istituto e minacciano di intraprendere un’azione legale contro la nomina della giovane insegnante. «Non siamo intolleranti – dirà una delle madri al «Blick» – ma ci sono differenze culturali e quando affidi il tuo bambino piccolo alle cure di qualcuno devi poterti fidare di quella persona al cento per cento». Per evitare una lunga e costosa disputa legale, il Comune rinuncia alla nomina della docente.
Una mancata assunzione che riaccende un dibattito e solleva questioni che, a trent’anni dal primo caso in Svizzera, non abbiamo ancora risolto. Nel rifiutare la docente velata i genitori dei bimbi si sono appellati alla neutralità religiosa della scuola e a una sentenza del 1997 del Tribunale federale. Allora l’Alta Corte riconosceva come legittima l’imposizione a un’insegnante ginevrina convertita all’Islam di togliere il velo durante le lezioni. La sentenza era poi stata confermata anche dalla Corte europea dei diritti umani. Come hanno sottolineato di recente diversi docenti di diritto, da quella sentenza non si può però dedurre una regola generale. La questione del velo si trova infatti in una zona di frizione fra diversi principi e diritti. Le libertà di coscienza e di credo sancite dalla Costituzione impongono allo Stato di agire in maniera neutrale dal punto di vista confessionale e religioso, in modo da rispettare i diritti dei/delle cittadini/e. Un principio sancito anche da una sentenza del Tribunale federale (TF) che nel 1990 aveva vietato al Comune di Cadro di apporre il Crocifisso in un’aula scolastica. La libertà di religione è appunto un diritto fondamentale della persona e può essere limitato, dice sempre la Costituzione, solo in presenza di un interesse preponderante e di una disposizione di legge.
Ecco la pietra di inciampo legata alla sentenza del 1997 sul caso ginevrino: già allora il Cantone romando aveva infatti delle norme molto chiare che vietavano ai dipendenti pubblici di indossare simboli religiosi evidenti. Questo non è invece il caso di San Gallo, come dimostra il fatto che, al rientro in classe dopo le vacanze estive, nella capitale cantonale insegnerà una docente col velo, come ha rivelato il capo dicastero in un’intervista al «St. Galler Tagblatt». La mancata assunzione della giovane insegnante a Goldingen sarebbe dunque critica dal punto di vista legale; lei però ha deciso di non fare causa e di passare oltre continuando a inseguire quello che ha definito il suo sogno sin da bambina: insegnare. Non sarà dunque un tribunale a fare chiarezza.
Ma al di là degli aspetti meramente legali, di questi tempi non sono pochi a chiedersi se il velo sia conciliabile con i valori della scuola elvetica. Il problema si pone soprattutto nei gradi obbligatori – scuola dell’infanzia, elementare e media – dove gli allievi potrebbero essere più influenzabili. Un certo modo di interpretare l’Islam, poi, impone il velo alla donna anche per nascondere la propria femminilità agli occhi di chi non appartiene alla famiglia (l’hijab può rappresentare umiltà, modestia ecc.). Certi promotori di un Islam progressista parlano non di un simbolo religioso, bensì di un simbolo della sottomissione femminile. E per chi si ribella le conseguenze possono essere gravissime, pensiamo ad esempio al destino di Mahsa Amini e al coraggio delle tante iraniane che sfidano le autorità liberando le loro chiome… Il velo simbolo dunque di una società patriarcale che cozza con il principio di parità fra i sessi (veniva riconosciuto già nel 1997 dai giudici di Mon Repos). Un altro principio costituzionale con il quale dobbiamo confrontarci in questa complessa discussione.
In Svizzera nessuna ragazza o donna dovrebbe essere obbligata a portare il velo, l’articolo costituzionale sulla libertà di credo afferma esplicitamente: «Nessuno può essere costretto ad aderire a una comunità religiosa o a farne parte, nonché a compiere un atto religioso o a seguire un insegnamento religioso». Questo presuppone però la conoscenza dei propri diritti e, soprattutto, la possibilità di farli valere. Per tutelare bambine e ragazze delle scuole dell’obbligo, il Consiglio nazionale un anno fa ha chiesto al Governo di valutare la stesura di una base legale per vietare alle allieve il velo in classe. Dal canto suo il Consiglio federale ha fatto notare che i Cantoni avessero già gli strumenti per intervenire e soprattutto sosteneva – basandosi su una sentenza del TF – che un tale divieto violerebbe i diritti fondamentali delle allieve musulmane. Va ricordato infatti che le allieve, a differenza delle docenti, non rappresentano l’autorità statale e quindi i loro obblighi verso la scuola sono ben diversi. Davanti a tanta complessità non resta che attendere il rapporto del Governo sulla necessità (o meno) di creare la base legale citata e il conseguente dibattito politico, nella speranza che porti un po’ di chiarezza su una questione che, se negli anni Novanta poteva essere marginale, oggi lo è sempre meno. L’Ufficio federale di statistica ci ricorda infatti che nel 1990 i musulmani in Svizzera rappresentavano l’1,6% della popolazione, nel 2023 erano diventati il 6%.
Le autorità cantonali ci dicono che da noi non si sono mai registrati casi simili a quello di Eschenbach. Scorrendo poi la regolamentazione scolastica non si trovano norme specifiche riguardanti l’uso di simboli religiosi forti. Si trova invece questa frase: «l’insegnamento è impartito (…) nel rispetto della libertà di coscienza». Mentre il Codice di comportamento per i docenti del 2021 impone «un abbigliamento consono alla funzione e al contesto di svolgimento della stessa» ed esige «prudenza e discrezione nell’esercizio della libertà d’espressione».
Per trovare una risposta da parte del Consiglio di Stato alla questione del velo islamico a scuola bisogna leggere la risposta all’interrogazione di Matteo Quadranti del 14 luglio 2011 dal titolo «Laicità dello Stato: crocifissi nelle aule scolastiche no mentre nei corridoi sì?». Allora il Governo scriveva, rifacendosi alla sentenza ginevrina del 1997: «Il Tribunale federale ha già avuto modo di rilevare che il porto di simboli religiosi forti e l’uso di vestiti particolari per motivi religiosi nelle aule scolastiche e nel cortile contrastano con la neutralità e la pace confessionale nella scuola: il relativo divieto di portare ad esempio non solo il foulard islamico ma anche la sottana (la socca) o la kippah è pertanto sorretto da un interesse pubblico preponderante ed è conforme al principio di proporzionalità».