Tempo fa Luca Sofri ha inserito in una newsletter («Canzoni») del suo sempre più pregevole «Il Post», giornale online, una nota personale. Ha ricordato che suo nonno, umanista con una mai repressa brama per scienza e cose moderne, in tasca teneva sempre una bussola e che questa ora è sulla scrivania del nipote. Anch’io parlerò di mio nonno, quello materno. Mederico il suo nome, oggi desueto e un po’ anche buffo. E aggiungo che anch’io conservo – oltre a vivissimi ricordi di bambino e adolescente, legati ad animali e caccia – un suo minuscolo lascito che ora è più di un tenero ricordo. Non lo tengo sulla mia scrivania, bensì in un mobiletto, arte povera che pretende di essere uno scrittoio, con una miriade di cassetti e ripostigli in cui non smetto di radunare disordine: passaporti scaduti; ritagli con annunci funebri di parenti assieme a loro foto da vivi; la carta gommata sui due lati quasi a contatto con un francobollo di Federer; una busta con monetine non spese in lontani Paesi appoggiata a un registratore (un tempo «mangiacassette»); due tazze colme di 5 e 10 centesimi posate sugli appositi fogli per portarli arrotolati alla Posta. E tanto altro ancora, al punto che per mia moglie il mobiletto è un porta-caos, mentre per me è un porta-gioie.
In uno dei mini-cassetti posti sui lati c’è addirittura un tesoro: alcune pietre (il «preziose» non lo scrivo, valeva solo per millantare infondati valori con figli e nipoti; in realtà le avevo acquistate per pochi dollari da una specie di fachiro in India), un po’ di 5 franchi in argento (praticamente servivano solo a far risuonare il chiaro tintinnio quando cadevano al suolo) e alcuni scudi commemorativi del Canton Ticino, del Vaticano, della Swissair e di banche ticinesi ormai sparite. Tentando una valutazione credo che il contenuto delle due tazzine di monete da portare alla Posta valga più di tutti gli altri «tesori». Però un valore incommensurabile, per me almeno, lo raggiunge un venti centesimi ancora in circolazione, dono ricevuto dal nonno materno Mederico che lavorava in ferrovia a Chiasso. Semplice operaio, nei miei ricordi occupa ancora oggi un posto molto elevato per una ragione semplice e al tempo stesso strepitosa, soprattutto agli occhi di un giovane: per lavorare di notte o di giorno tra vagoni e binari mio nonno ha compiuto per oltre 30 anni il tragitto da Sagno a Chiasso e ritorno quasi sempre a piedi.
Oggi gli strumenti digitali dicono che sono 16 km; ai suoi tempi erano meno, forse 12 visto che percorreva la vecchia mulattiera che scende più ripida su Vacallo. Non cambierebbe però il dislivello: quasi 500 metri, spesso affrontati sotto le intemperie stagionali e in orari estremi. Conoscendolo, sono sicuro che nonno Mederico non sarebbe contento di veder spifferate cose che lo riguardano così intimamente. Di sicuro avrebbe paura che io possa tornare a raccontare di quando, sopra il tetto della cappella della Madonnina che ancora saluta chi arriva a Sagno, di notte cacciavamo ghiri. O che mi spinga sino a rivelare cosa aveva risposto beffardo alla moglie, nonna Eva, che gli rimproverava la sorsata di vino praticamente in tempi di colazione: «S’öt ch’el sàpia ul sctomic, se l’è matìna o se l’è sira!». Al limite accetterebbe di veder rievocate le feste che noi nipoti gli facevamo quando tornava dai campi con tanti mazzetti di fragoline di bosco infilati – golosissimo ornamento – nella banda di stoffa attorno all’ala del cappello. E allo stesso modo sarebbe contento di sapere che sto ricordando quel «vint ghéi» che mi regalò con un «tégnal da cünt» e facendomi notare che era stato coniato nel 1888, l’anno della sua nascita. Settant’anni dopo, quando compie 137 anni e anche se vale ancora solo 20 centesimi, il suo «vint ghéi» mi dona ancora due valori: è segno concreto della stabilità che la nostra moneta da 150 anni riesce a preservare e, allo stesso tempo, è testimonianza e ricordo di tanti valori trasmessi ai suoi nipoti da nonno Mederico.