Alle radici della propria terra

Saranno stati battuti migliaia di volte da Flavio Paolucci i sentieri boscosi al margine settentrionale di Biasca, proprio all’imbocco della Val di Blenio. Qui l’artista ticinese vive da sessant’anni. Da quando, nel 1965, vi ha fatto costruire la propria casa-atelier con grandi vetrate che guardano verso le montagne. Durante le sue rituali passeggiate quotidiane lungo questi percorsi che si addentrano nel fitto della selva, Paolucci trae ispirazione di continuo, raccogliendo sia stimoli mentali sia elementi materiali per poter creare le sue opere.

Se c’è infatti un aspetto incontrovertibile di Paolucci e della sua arte è proprio il profondo legame con la terra natia, con la Valle dell’Alto Ticino che, nel piccolo borgo di Torre, lo ha visto venire alla luce nel 1934, più di novant’anni fa. Un legame che l’artista stesso definisce «un bisogno del tutto naturale perché la mia vita è cominciata lassù».

Mi tornano alla mente le splendide parole di Pablo Neruda, che nel suo libro di memorie dal titolo Confesso che ho vissuto così scriveva: «Io non posso vivere che nella mia terra; non posso vivere senza mettere in essa piedi, mani, orecchie, senza sentire la circolazione delle sue acque e delle sue ombre, senza sentire come le mie radici cercano nelle sue zolle le sostanze materne».

E pensare che, per Paolucci, la piena coscienza che il suo lavoro avrebbe potuto trarre linfa vitale e piena espressività solo dal rapporto intimo con l’ambiente in cui egli è nato non è stata il frutto di una lenta maturazione, quanto piuttosto l’inaspettata conseguenza di un viaggio che lo ha allontanato dai suoi paesaggi d’infanzia per catapultarlo in un luogo del tutto diverso: il Marocco. L’immenso deserto solitario e l’infinito orizzonte ininterrotto del Paese nordafricano lasciano Paolucci disorientato, privo di coordinate spaziali ed esistenziali. L’artista si sente «un punto sospeso» senza più alcuna direzione da seguire.

Ecco allora che questo distacco riconduce Paolucci con ancor più forza laddove sono le sue origini, come se la distanza reale e spirituale dalla sua terra lo avesse ancor più avvicinato a essa, rendendolo consapevole di quanto ne avesse bisogno per raggiungere il proprio sviluppo artistico.

Muovendosi abitualmente tra gli alberi, gli arbusti, i rovi e le sterpaglie dei suoi boschi, e accompagnato dal gorgoglio rilassante e ipnotico del fiume Brenno, Paolucci ha così innescato un’indissolubile relazione con la natura che da sempre gli appartiene. Una natura che l’artista esplora ogni volta come fosse la prima, aprendosi ai suoi rumori, ai suoi odori e ai suoi colori per diventare partecipe della sua dimensione autentica e misteriosa.

Ciò che da questo paesaggio viene prelevato, sottoforma di suggestione così come di vero e proprio frammento reale (una foglia, un ramo, una pietra), viene pazientemente decantato e rielaborato in atelier, per poi essere restituito come un’opera d’arte dall’essenziale efficacia estetica che si fa incarnazione dell’universo più recondito dell’artista. Paolucci parla di una «trasposizione del fatto naturale in fatto personale».

Oltre che alla potenza generatrice della natura, Paolucci schiude pensiero, spirito e cuore alle tracce dell’antica civiltà rurale della sua valle che per secoli si è confrontata con una terra spesso inospitale e che ha instaurato con essa un rapporto simbiotico basato su un precario equilibrio di reciproco adattamento. L’artista cerca di recuperare e preservare questa cultura contadina semplice e genuina. Una cultura di cui ha molti ricordi d’infanzia e di cui le sue opere hanno voluto farsi specchio nella sapienza artigianale con cui sono state create e nella poetica essenzialità che le caratterizza.

Si può dunque ben comprendere come la mostra di Flavio Paolucci allestita presso Casa Cavalier Pellanda, pregevole monumento rinascimentale nel nucleo antico di Biasca i cui spazi sono stati ristrutturati di recente, abbia un significato particolare, essendo la prima rassegna dedicata all’artista nei luoghi a cui egli ha legato gran parte della sua esistenza.

Sebbene non abbia pretese di completezza antologica, la retrospettiva biaschese, curata da Elio Schenini, presenta una selezione di sculture, dipinti e collage che ben testimonia le tappe principali del lungo e prolifico cammino di Paolucci, soffermandosi anche sul lavoro dell’ultimo decennio, un arco di tempo, questo, ancora molto fecondo per l’artista ticinese, contraddistinto dall’affinamento del suo lessico espressivo.

In stretto dialogo con le sale della dimora storica che Giovan Battista Pellanda fece costruire nella seconda metà del Cinquecento, le opere di Paolucci acquistano una valenza ancor più pregnante, diventando preziose depositarie di quelle memorie di cultura e natura che hanno sempre connesso l’artista al territorio. E lo fanno senza adagiarsi su facili sentimentalismi o su rimpianti nostalgici, ma con un’energia e un lirismo capaci di creare inedite metafore del mondo.

Partendo dal presupposto assodato che Paolucci, proprio per il caparbio attaccamento alla sua terra, sia una figura atipica e appartata che sfugge a nette classificazioni, il suo percorso artistico è stato caratterizzato dall’esigenza di sperimentare linguaggi sempre diversi per poi riuscire ad approdare a un vocabolario personale. Dopo un esordio all’insegna dell’Espressionismo prima e dell’Informale poi, negli anni Sessanta l’artista assimila le soluzioni proposte dalle neoavanguardie, accostandosi soprattutto alle indagini della Pop Art, del Nouveau Réalisme, della Minimal Art e dell’Arte Povera e arrivando così ad accantonare la bidimensionalità della pittura a favore di una pratica oggettuale.

Con gli anni Settanta si fa sempre più pressante per Paolucci l’esigenza di radicare la sua arte nei confini della propria esperienza di mondo. Non si tratta certo di un ripiego sul locale bensì di una condizione necessaria per dare nuova vita alla sua ricerca. I temi si fanno più esistenziali e l’avvicinamento alla natura ancora più intenso. A questo periodo risalgono i primi Innesti dell’artista, lavori che non solo risultano in sintonia con alcuni degli esiti più rilevanti nell’ambito dell’Arte Povera italiana, ma che segnano anche il raggiungimento di quel lessico peculiare che determinerà da lì in poi la produzione di Paolucci.

L’artista ticinese ha sperimentato linguaggi sempre diversi per poi riuscire ad approdare a un vocabolario personale

Le opere esposte a Biasca raccontano storie di uomini e di natura attraverso i materiali prediletti dell’artista, quali il legno, la corda, la carta e il colore, ma anche la fuliggine raccolta nei camini di case abbandonate, a cui nel corso degli anni se ne sono aggiunti altri ascrivibili a una tradizione più alta, quali il bronzo, rifinito con diverse patine, il vetro e il marmo. Elementi lavorati con cura e abilità al fine di riproporre quell’equivocità tra verità e artificio, tra effimero e perenne che è il marchio di fabbrica dell’artista.

Anche i simboli e i segni che fanno parte del registro di Paolucci sono i medesimi da decenni: un repertorio esiguo ma iconico di forme della natura, come l’albero, la foglia o l’uovo, di forme astratto-geometriche, come il cerchio, il quadrato o la croce, e di forme antropiche, come la barca o la casa. Quest’ultima, in particolare, rappresentata sempre con la tipica sagoma delle tradizionali abitazioni in pietra della valle, ritorna costantemente nei lavori dell’artista con la precisa missione di evocare l’uomo. Un uomo di cui Paolucci narra con delicatezza e poesia le asperità della vita e il fragile rapporto con la natura. Un uomo che trascende le terre ticinesi per assurgere a emblema ancestrale dell’intera umanità.

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