C’era una volta l’infanzia

Si rischia di essere patetici (3) e qualche volta però ne vale la pena, specie se si pensa ai bambini. Anche se di questi tempi rischiare il patetico è un errore imperdonabile più dell’orrore dilagante (1). Ma in fondo non è più patetico (2) evitare di urlare lo schifo del mondo per timore di apparire patetici? Ripartiamo da Goffredo Fofi (5+), che non perdeva occasione per scrivere dell’infanzia ferita: diceva che tutto ciò che aveva imparato l’aveva imparato da bambino sotto la guerra, la guerra che aveva visto e sofferto. Citava, tra i capolavori che hanno affrontato l’infanzia e la guerra, alcuni film di Rossellini (6-). Sosteneva che i bambini nati negli anni Trenta, che avevano subìto la guerra, una volta cresciuti non hanno imparato nulla da quella esperienza e non sono stati migliori di altri che la guerra non l’avevano vissuta. La Storia non è «magistra» di niente, ha scritto Montale (6). È anche vero, però, che ai bambini morti sotto le bombe è negata la possibilità di smentire Fofi. Perché non potranno mai dimostrare che, se non fossero morti come distratto effetto secondario della follia degli adulti, sarebbero stati persone migliori dopo aver visto l’orrore che hanno fatto in tempo a vedere. E non potranno neanche confermare un altro pensiero, del filosofo tedesco Günther Anders (5½), che piaceva a Fofi: «Solo chi è disperato può parlare della speranza».

Ciò non toglie che chi non è disperato possa (debba) indignarsi della disperazione dei disperati. Pateticamente? Pazienza. Il problema dei bambini, diceva Fofi, è il mondo degli adulti. E questo è indiscutibile. Gli adulti sono così disinteressati ai bambini da stare a contare i loro cadaveri quotidiani senza muovere un dito: semmai, contriti davanti ai tg della sera (2), se ne dispiacciono con l’ipocrisia concessa dalla distanza. Quando sono interessati ai bambini, li pensano come consumatori (vedi il trionfante kid marketing: voto 1). Ci sono i bambini consumatori e i bambini consumati (dal lavoro, dallo sfruttamento, dalla fame, dalle guerre): è un’altra intuizione di Fofi. I bambini consumati sono anche quelli soffocati dal narcisismo dei genitori. Se non ci credete, leggete lo psicologo Matteo Lancini (Sii te stesso a modo mio, voto: 5). Anche gli orfani sono consumati. Scrive Fulvio Scaparro, maestro della psicologia dell’età evolutiva (5+): «Ci sono vari tipi di orfani: c’è chi non ha mai conosciuto i suoi genitori, chi li ha perduti per guerre o malattie, chi li ha ma non li apprezza, chi li ha e non sono apprezzabili». Sono apprezzabili gli adulti che considerano la morte dei bambini un effetto collaterale delle bombe? No, sono odiosi criminali che, come tali, sarebbero da perseguire, ma dopo qualche generico appello si continua a far finta di niente, mentre si corre ai ripari precipitosamente se i mercati vanno in crisi.

Non nego la mia accresciuta passione per il filosofo eretico Günther Anders, amico e marito (per breve tempo) di Hannah Arendt. Mi pare che continui a parlarci del nostro tempo anche a distanza di molto tempo (è morto nel 1992): per esempio quando ritrae l’uomo tecnologico come un «uomo antiquato» rispetto alla stessa tecnologia che ha inventato, non essendo capace di governarla. Si crea, secondo Anders, un dislivello tra l’uomo e i suoi prodotti meccanici che, sempre più nuovi ed efficienti, lo superano. Ciò vale per le armi come per i mezzi di persuasione, che nei suoi anni erano la radio e la televisione e per noi sono soprattutto i social. I mezzi di comunicazione non sono solo «mezzi», ma «realtà che ci plasmano»: ecco perché, dopo il trionfo dei mass media, secondo Anders non può esistere la democrazia così come era stata tradizionalmente intesa. Vedeva lontano, Anders, pur non avendo ancora conosciuto l’epoca di internet, dell’intelligenza artificiale, della politica fatta (dai politici: voto 1) attraverso messaggini inviati su WhatsApp. Tra il 1959 e il 1961, Anders ebbe uno scambio epistolare con il pilota che ordinò di sganciare la bomba atomica su Hiroshima senza immaginarne le conseguenze. Si chiamava Claude Eatherly e visse i suoi giorni con un colossale senso di colpa e un desiderio di espiazione che lo avvicinò al suicidio due volte e lo fece finire in una clinica psichiatrica. Anders lo definì un «incolpevolmente colpevole». Non dimentichiamo che vivono beatamente tra noi i «colpevolmente colpevoli» delle bombe e dei bambini morti.

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