Dazi, reazioni opposte dopo l’accordo tra Usa e Ue

Il Pil americano è cresciuto del 3% nell’ultimo trimestre. Molti lettori sobbalzeranno, perché speravano in un disastro dell’economia Usa per castigare Donald Trump e indurlo a ripensare le sue politiche economiche. Ma in economia bisogna lasciar da parte l’emotività e le preferenze politico-ideologiche. Le esportazioni delle imprese europee sul mercato Usa sopravviveranno ai dazi con qualche perdita e qualche danno. Chi ha contatti con il mondo delle imprese sa che più dei dazi nei mesi scorsi temevano l’incertezza e una recessione americana che farebbe stringere i cordoni della borsa al più spendaccione dei consumatori. Una crescita del 3% forse «premia Trump» (in realtà non è proprio così), ma  rappresenta uno scampato pericolo per gli esportatori dal Vecchio continente. Per loro è fondamentale che la domanda Usa continui a trainare, perché quel mercato rimane il secondo sbocco più importante dopo quello dell’Ue. Al momento di andare in stampa, giovedì scorso, non sapevamo se l’intesa sui dazi tra Berna e la Casa Bianca sarebbe andata in porto (la tregua concessa da Trump, con i dazi al 10% e un’esenzione completa per la farmaceutica, scadeva il primo agosto). Mancava l’ok del presidente Usa. Ragioniamo quindi sull’Ue. A leggere certi media, sembra che l’Unione abbia scritto una pagina ignobile della sua storia, con una resa incondizionata ai diktat del bullo della Casa Bianca. Mancano però spiegazioni convincenti sul perché di questo comportamento codardo. Qualcuno insinua che Ursula von der Leyen è un’agente americana, che ha incassato delle tangenti, si è venduta. Altre dietrologie puntano il dito sull’industria automobilistica tedesca come uno dei vincitori. Perché? Un punto qualificante dell’accordo è questo: le auto europee importate sul mercato Usa pagheranno dazi del 15% in media, quelle americane vendute in Europa zero. Ma chiunque conosca un po’ il settore sa che le grandi marche Usa non producono modelli studiati per la clientela europea da anni e non hanno granché di appetibile da esportare. Chi incasserà i benefici? Le fabbriche Mercedes e Bmw sul territorio Usa che potranno esportare in Europa a zero dazi. Ci sono settori che hanno un trattamento migliore di altri. Però non bisogna perdere di vista lo scenario generale.

Troppi politici  e media locali alimentavano illusioni sulla possibilità che l’Europa mettesse in ginocchio Trump minacciando rappresaglie, o alleandosi con il resto del mondo. La delusione post-accordo è proporzionale a quelle illusioni. Un argomento «a favore di Ursula» comincia a farsi strada tra gli addetti ai lavori che analizzano i dettagli – ancora incerti – della partita dazi. La presidente della Commissione forse ha portato a casa un livello medio dei dazi inferiore a quello applicato da Washington ad altre aree del mondo. La «posizione relativa» dell’Europa risulterebbe migliorata; e poiché nel commercio estero contano questi confronti di competitività, sotto questo profilo si può trovare qualche ragione di ottimismo. Il ventaglio di reazioni è variegato. Più negativo in Europa e più positivo in America, con dei distinguo. Come accadde con il Giappone (l’accordo bilaterale che aveva anticipato molti aspetti dell’intesa fra Trump e von der Leyen), anche nel caso Usa-Ue siamo di fronte a una traccia generale, che andrà completata con i dettagli specifici. Come le esenzioni dai dazi americani per i settori farmaceutico, agroalimentare, e alcuni altri prodotti. Finché mancano questi dettagli ogni bilancio è provvisorio. Colpisce il divario sempre più largo tra Germania e Francia, che in passato erano il motore dell’integrazione europea. Il premier francese Bayrou ha condannato con indignazione quella che definisce una resa dell’Europa, adottando gli stessi toni che altrove sono quelli dei partiti di opposizione. Il cancelliere tedesco Merz, pur riconoscendo che la Germania subirà un danno, ha dato atto ai negoziatori di Bruxelles di aver ottenuto il miglior risultato possibile. In questo è apparso in sintonia con le reazioni dei mercati e di diversi settori industriali: «scampato pericolo».

Come spiegare reazioni così distanti fra Berlino e Parigi? In teoria dovrebbero essere i tedeschi a lamentarsi di più. È la Germania ad avere il più grosso attivo commerciale con gli Stati Uniti, quindi è l’economia tedesca quella che subirà l’applicazione più estesa dei dazi trumpiani. Le differenze hanno a che fare con la politica interna, ma non solo. Bayrou è un premier di minoranza, sostenuto da un presidente Macron sempre più impopolare: ambedue sono assediati dall’opposizione, cavalcare il nazionalismo e l’antiamericanismo dei francesi è quasi obbligatorio. Merz è in una situazione politica più solida. Inoltre è un uomo d’affari, capisce di economia. Nel suo pragmatismo aveva misurato i rapporti di forze Usa-Ue, che oggi sembrano sfuggire ai francesi. Il punto di partenza è l’immensa asimmetria dell’economia globale, con un’America che per molti decenni ha svolto il ruolo di compratore di ultima istanza, e molte altre Nazioni che si facevano trainare dal mercato Usa per crescere (salvo poi rimproverare agli americani di essere «spendaccioni, che vivono al di sopra dei propri mezzi, indebitandosi»). Un macro-squilibrio di queste dimensioni fa sì che l’America, se minaccia di chiudere il proprio mercato anche solo in parte, può infliggere agli altri dei danni molto superiori a quelli che gli altri possono restituirle. Se Merz assolve Ursula dalle accuse di resa, non è solo per difendere una connazionale, compagna di partito e alleata. Ma perché Merz nel suo realismo non ha mai preso sul serio gli scenari di un «bazooka» europeo, o di una grande coalizione Europa-Cina per mettere in ginocchio Trump. Merz è anche l’unico leader che formula una risposta costruttiva alla sfida trumpiana: col suo maxi-piano di spesa da mille miliardi punta a rendere la Germania meno dipendente dai mercati esteri, più capace di crescere facendo leva sulla propria domanda interna, e meno parassitaria sul fronte della difesa.

Un argomento finale e decisivo che rende Merz più indulgente verso Ursula è quello sul bilancio relativo nella partita dei dazi. Ferme restando le incertezze sulle esenzioni settoriali, la maggior parte degli esperti giudica  che il dazio medio applicato alle merci europee quando arrivano in America finirà per assestarsi tra il 10,5% e il 14%. È tanto, ma in molti settori sarà assorbibile. Per due ragioni. Primo: il processo di “import-substitution” per cui una merce europea divenuta troppo cara viene rimpiazzata da una merce prodotta localmente sul territorio Usa, richiederà tempi lunghi e in certi casi è impossibile. Poi c’è la questione dei dazi relativi. Il prodotto europeo post-dazi diventerà più caro; però è possibile o forse probabile che l’export da altre parti del mondo verrà colpito con dazi Usa un po’ più alti di quelli concordati con Ursula. In tal caso la competitività relativa dell’Ue rispetto ad altre economie esportatrici risulterà migliorata. Tutto questo, ribadiamo, è soggetto a revisione quando conosceremo i dettagli sulle esenzioni settoriali. Rimane anche la spada di Damocle della magistratura Usa: i tribunali potrebbero bocciare l’uso che Trump ha fatto di una legge speciale per negoziare sui dazi: secondo numerose opposizioni interne avrebbe abusato del suo potere.

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