Il ritorno del sottosuolo

L’idea mi frullava nella testa da un po’, ma ho aspettato l’estate per realizzarla. Volevo rileggere con calma Memorie del sottosuolo di Dostoevskij convinto di trovare in quel libro, pubblicato nel 1864, una descrizione profetica dei nostri tempi. E l’ho trovata, forse persino più profonda e accurata di quanto ricordassi.  

L’intuizione di partenza non aveva nulla a che fare con la trama del romanzo. Nasceva dal fatto che stiamo vivendo stagioni in cui, per ciò che il sottosuolo contiene, nascono guerre e si sterminano popoli. Veniamo da decenni di conflitti per il petrolio e per l’acqua, e siamo entrati in un’era di contese sulle terre rare che scatenano rapaci appetiti di possesso perfino sulle immense distese ghiacciate della Groenlandia.

Ma c’è un altro sottosuolo che Dostoevskij magistralmente racconta, e ci consente di stabilire non tanto delle analogie dirette, ma delle risonanze tematiche che rivelano quanto l’autore russo sia ancora attuale. È il mondo della meschinità fuori controllo e fuori logica. Il protagonista di questo capolavoro oscuro, l’uomo del sottosuolo appunto, è un ex funzionario di Pietroburgo, isolato, rancoroso, iper-razionale, che vive nel risentimento, nel disprezzo di sé e degli altri, e nella paralisi esistenziale. «Là, nel suo lurido, puzzolente sottosuolo – scrive – il nostro topo offeso, maltrattato e deriso si sprofonda immediatamente in una fredda, velenosa e soprattutto eterna malignità». Parla di giustizia, ma vuole solo vendetta, una vendetta sproporzionata al torto subito. Come non pensare alla ritorsione israeliana non contro Hamas (che è legittima e necessaria), ma contro i palestinesi tutti, ora che perfino due Ong israeliane hanno definito le politiche di Netanyahu, genocidarie?

Un altro tema attualissimo è la scelta politica di non perseguire veramente il vantaggio dell’umanità, anzi: «Che fare dei milioni di fatti che testimoniano come gli uomini scientemente, cioè comprendendo appieno i loro veri vantaggi, li lasciassero in secondo piano e si buttassero su un’altra strada (…) difficile, assurda, cercandola poco meno che nelle tenebre?» Basti pensare, in questo caso, al modo in cui stiamo abbruttendo il pianeta con scelte che sfregiano l’equilibrio ambientale, rivalutano le energie fossili, surriscaldano l’aria provocando poi catastrofi naturali, come le micidiali alluvioni nelle nostre valli, a cui ci stiamo vigliaccamente abituando? O alle guerre che non finiscono mai, distruggendo vite innocenti senza soluzione di continuità, mettendo in ginocchio le economie di molti Paesi e adombrando un ritorno non più improbabile della minaccia atomica in scenari come quello ucraino?

Tristemente vera anche la constatazione di Dostoevskij che non è affatto scontato che «per effetto della civiltà l’uomo si raddolcisce, per conseguenza diventa meno sanguinario e meno atto alla guerra». Secondo lui vale il contrario: grazie alla civiltà l’uomo vive quella che definisce la multilateralità delle sensazioni (cioè la coesistenza di sentimenti opposti: odio e amore, pietà e crudeltà…) e «attraverso lo svilupparsi di questa multilateralità l’uomo c’è caso che giunga magari a trovare godimento nel sangue». Esiste epoca più sadica della nostra, in effetti? 

La grande domanda è il perché. Perché, malgrado secoli di evoluzione dei costumi e del pensiero, restiamo topi rancorosi del sottosuolo? Perché al vantaggio della specie preferiamo il «vantaggiosissimo vantaggio» dell’arbitrio, del capriccio, dell’ostinazione, dell’autogol sistematico e perfino desiderato? Perché, citando sempre le Memorie del sottosuolo «l’uomo non rinuncerà mai alla distruzione o al caos»? 

Può darsi che la risposta si trovi nelle opere più mature di Dostoevskij, nella sua dolorosa ricerca di un orizzonte di senso nella spiritualità, per esempio. Vabbè, l’estate è a metà del guado, potremo rileggere con calma anche I fratelli Karamazov e Delitto e castigo.

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