Là dove la lana trattiene i colori delle brughiere

La vetrata è spalancata sul profondo blu di un braccio di mare spazzolato da un vento ispido sullo sfondo di verdi colline. Parte in dolcezza questo Donegal, nascosto dietro la porta rosso fuoco di un cottage irlandese perso tra spiagge e brughiere di St John’s Point, ma a guardarlo tutti i giorni deve trasmettere un po’ della sua magia allo struggente universo di trame e colori che Cindy Graham crea facendo volare nell’aria ragnatele di fili al ritmo di un antico telaio: «Apparteneva a mio padre perché mia madre non era una tessitrice, e qui abitava mia nonna. Ci sono ragioni di famiglia per una passione che non è solo un lavoro. Un tempo da queste parti tessere era anche un modo di vivere, ma oggi siamo rimasti in pochi, anche se il Donegal Tweed è il più famoso del mondo insieme all’Harris Tweed scozzese. Le differenze dipendono soprattutto da un microclima che influenza le sfumature di colore delle brughiere, del mare, dei licheni e delle rocce». Insieme a una lavorazione rigorosamente manuale è proprio la struggente bellezza delle sfumature di more, fucsia, ginestre e muschi, piante autoctone frutto di un ambiente unico, il segreto del fascino senza tempo di questo panno di lana ruvido nato originariamente in Scozia.

Il Donegal Tweed arrivò nel nord dell’Irlanda alla fine del Settecento quando la Royal Linen Manufactures distribuì seimila ruote per filare e altrettanti telai agli agricoltori locali che impararono rapidamente a trasformare la lana filata dalle donne in una trama di ordito di qualità altissima intrecciata in colori diversi a intervalli irregolari. Da allora il Donegal Tweed non ha più smesso di ricreare lo straniante effetto di un prato ricoperto di erica o di un mare incerto tra blu e antracite che si schianta contro le scogliere di Slieve League, le più alte d’Europa. Lame di granito aguzze come coltelli scolpite da millenni di tempeste e maree, quasi una metafora della durezza di vita di pescatori e contadini che, per sbarcare il lunario, facevano anche i tessitori.

«Noi siamo l’ultima generazione, i giovani spesso se ne vanno dopo pochi giorni perché le ragazze li trovano più appetibili se lavorano con i computer; uno dei miei due figli fa l’informatico negli Stati Uniti, l’altro almeno si occupa di cavalli» ride serafico Sean sovrastando il sottofondo cigolante di un telaio sfinito da generazioni di tessitori nel villaggio di Kilkar, uno degli ultimi baluardi del tweed tradizionale. Voci da un finis terrae gaelico dove il vento scivola sulla mezzaluna di sabbia di Silver Strand illuminata da luci sfacciatamente caraibiche, almeno quando il sole riesce a squarciare nuvole striate d’argento e blu che probabilmente hanno preso la rincorsa dal continente americano prima di raggiungere questo estremo lembo d’Europa.

Nella solitudine della vicina Glencolumbkille (Gleann Cholm Cille ), la «valle di Columba» dal nome di un santo monaco irlandese del sesto secolo famoso come una rock star, un menhir perso tra i campi rivela croci che affiorano dalla pietra, ultime testimonianze nascoste tra i campi di un cristianesimo capace di integrarsi con il mondo celtico. In Irlanda spesso c’è un prete dietro ogni storia e fu proprio un parroco, padre McDyers, a salvare il villaggio dallo spopolamento creando alla metà del secolo scorso piccole attività artigianali e inventandosi il Folk Village, un grumo di cottage tradizionali che dal 1967 rievocano la faticosa quotidianità di una comunità lontana dal resto del mondo, per la gioia dei rari turisti americani di origine irlandese in cerca di romantiche radici perdute.

Oltre le onde d’erba di morbide brughiere, il passo di Glengesh scivola giù verso Ardara, per oltre un secolo capitale del Donegal Tweed che veniva controllato e custodito nel Mart, costruito agli inizi del Novecento per l’ispezione, lo stoccaggio e la vendita del tweed. Oggi è la sede di Triona Design, erede di cinque generazioni di tessitori, «…siamo dentro un pezzo di storia, molti dei telai che vedi qui una volta avevano le ruote, così potevano essere trasportati da una casa all’altra e le persone potevano socializzare. Le tecniche non sono cambiate molto, ma l’umanità sì», è amaro il sorriso del proprietario Denis Mulhern. «Una volta tutti volevano un abito buono e ad Ardara lavoravano seicento tessitori, ma oggi sono meno di una dozzina e questo artigianato rischia di svanire anche se il mercato attuale, e le donne in particolare, preferiscono la nostra lana più corta e più morbida a quella del tweed scozzese ottenuta soprattutto dalle Black Sheeps, le pecore nere».

Alle sue spalle un tessitore aspetta pazientemente l’arrivo del prossimo bus di turisti che a colpi di wow e beautiful aiutano a sopravvivere un’attività che, dopo un’effimera rinascita tra la Prima e la Seconda guerra mondiale, ha una dimensione sempre più artigianale. Anche se il Donegal Tweed è considerato un tessuto perfetto per stilisti internazionali e sarti giapponesi, per Eddie Doherty di Handwoven Tweed, aria burbera e mani che non riescono a staccarsi dal telaio, contano i fatti: «Amo questo lavoro e non mi sono mai fermato, mica come certi miei concorrenti che vendono tweed prodotto altrove» sputa il rospo Eddie per chi vuole intendere, indicando la vetrina di un concorrente. Alla sera, fermati i telai, si ritrovano tutti al Beehive pub di Ardara, alla faccia dei tessuti sintetici e contraffazioni orientali, dove un gruppo di musicisti risucchia, cappellino incluso, una giapponese di passaggio. Le hanno messo in mano un violino mentre nell’altra impugna ancora uno smartphone, con quell’aria educatamente perplessa che hanno i giapponesi allibiti.

Immagini di un estremo nord-ovest irlandese che resiste imperturbabile, nutrito da visioni che si materializzano per un istante, due cavalli che sfiorano il grande dolmen di Kilclooney, paesaggi da fine del mondo che si spalancano tra un faro e una lingua di terra, un mare che ancora nasconde i relitti di molti galeoni dell’Armada Invencible disintegrati da un labirinto infernale di promontori verticali. È la fine del mondo del Bloody Foreland, il «promontorio sanguinoso», nome che è tutto un programma testimoniato dallo scheletro di un peschereccio che affiora dalla bassa marea a Bunbeg, spolpato di anno in anno da venti e tempeste.

A Inishowen, la penisola più settentrionale d’Irlanda, il grande cerchio di pietra scura di Grianan of Aileach, un forte dell’Età del Ferro, domina dall’alto di una collina i confini incerti di un dedalo di acque e colline. Oltre, c’è solo Malin Head, dove l’Irlanda finisce davanti a un mare incapace di fermarsi sotto nuvole smontate incessantemente dal vento. Come il tweed, intriso di una lunga storia di cui entra a far parte anche chi non la conosce, perché «quando compri uno yard di Donegal tweed dentro c’è anche lo spirito dell’Irlanda».

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