Lettera a Cesare Pavese

Caro Pavese, per dirti il mio grazie non trovo di meglio che scriverti una lettera nonostante le difficoltà che incontrerò nel cercare di fartela avere.

Ho 88 anni, cioè 46 in più di quei 42 che avevi tu quando hai deciso di lasciare questo mondo. Eppure ancora mi sei padre, un padre elettivo. Ci sono autori con i quali è opportuno fare i conti. Con te, Cesare, è diverso. Hai camminato al mio fianco, ombra insieme protettiva e minacciosa, per tutta la vita. In quel lontano agosto del 1950 avevo tredici anni e stavo per iniziare la terza media. Figlio e nipote di tipografi, leggevo il quotidiano «La Stampa» che il lunedì non usciva, sostituito da «Stampa Sera»: lo compravo all’edicola di piazza San Secondo, ad Asti e iniziavo a leggerlo sulla strada del ritorno. Ricordo sulla prima pagina di «Stampa Sera» di lunedì 28 agosto quell’articolo di spalla con la notizia della tua morte. Era la prima volta che incontravo il tuo nome. Leggevo e pensavo: com’è possibile che uno che è riuscito ad affermarsi come scrittore, decida di togliersi la vita? Così, per capire, ho cominciato a leggere i tuoi libri. Lo sappiamo: non bisognerebbe leggere le opere di un autore alla luce delle sue vicende biografiche, ma con te è stato impossibile. Non si tratta tanto di trattenersi dal fare «troppi pettegolezzi». Il tuo vissuto è altrettanto importante da «leggere» quanto le tue opere ed è a esse inestricabilmente intrecciato.

La tua figura si è stagliata all’orizzonte dei nostri anni giovanili, ha orientato i nostri gusti e persino i nostri gesti. Qualcuno ha parlato dell’infatuazione per Pavese come di un rito di passaggio verso la maturità. Indossavamo sciarpe come le tue, sfondavamo le tasche riempiendole di libri, frequentavamo le osterie. Pendolare su Torino, per frequentare il Bodoni, noleggiavo con i miei compagni una barca per remare sul Po. Come facevi tu. Terrorizzato dalla paura di cadere in acqua. Pur vedendoci benissimo avevo un paio di occhiali con la montatura identica alla tua e lenti che facessero «riposare la vista». Nei rapporti con l’altro sesso mi crogiolavo nell’acre piacere della sconfitta, fino all’abiezione di collaborare con il rivale per aiutarlo a fare breccia nel cuore della ragazza per la quale spasimavo in segreto, così da essere riconfermato nel ruolo di perdente.

Poi nel 1955 – avevo 18 anni – comprai e lessi Il mestiere di vivere, il tuo diario. Compresi che avevo imboccato una strada senza uscita. Se quello era il prezzo da pagare – la solitudine, il disadattamento, la sconfitta, il dolore – per diventare uno scrittore, non ero disposto a pagarlo. E ti ho rinnegato, mi sono liberato di quel padre elettivo che mi conduceva per mano sull’orlo del precipizio. Fra la malattia che acuisce la nostra sensibilità e ci rende più vulnerabili e la salute, l’ottusa e sorda salute che ci fa persone normali, ho scelto la salute.

Paura? Viltà? No, piuttosto accettazione del principio di realtà, in una quotidianità nient’affatto eroica. È questa la famosa maturità («Ripeness is all» come dicevi citando Shakespeare) che tu non hai mai voluto (o potuto) raggiungere? Mi sono ribellato perché ho creduto di coglierti in contraddizione. Da un lato, con le tue riflessioni sul mito, sulle radici della poesia, con i libri di etnologia e antropologia fatti pubblicare nella Collana Viola, con la poesia sul dio-caprone che «spruzza e ubriaca di un sangue più rosso del fuoco»; con I dialoghi con Leucò (La belva) hai dimostrato che la natura dell’uomo è immodificabile, che l’uomo ubbidisce a pulsioni ancestrali, che, grattata via la sottile crosta della civilizzazione, esce fuori la bestia. Dall’altro lato hai preteso di imporre a te stesso (e a noi che cercavamo di imitarti) un modello di vita eroico, di serietà, di fatica, in una prospettiva di lavoro, lavoro e poi ancora lavoro.

Stando alle tue premesse, la costruzione dell’uomo nuovo era destinata a fallire. Ma il tuo fallimento è stata la nostra salvezza. Hai fatto da capro espiatorio. Quando l’ho capito sei tornato a essermi padre e maestro. Mi hai insegnato che i libri e la letteratura praticati come una religione, non salvano la vita. Che l’ostinata fedeltà a un progetto perseguito fino all’estremo ci rende rigidi e fragili come cristalli.

In compenso ci hai lasciato un modello di serietà e di dedizione tanto più importante in una stagione annegata nel pressapochismo e che assiste in molti campi al trionfo dei dilettanti. Grazie per essere arrivato fino in fondo a leggere questa lettera. E lunga vita a te, Cesare Pavese, a te che hai voluto viverne una così breve.

Tuo Bruno Gambarotta

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