Un ecosistema che fa emergere i talenti

Dal 2013, Stefano Knuchel, regista e autore ticinese, contribuisce a far crescere quella parte del Locarno Film Festival che non si esaurisce nelle proiezioni in programma. Stiamo parlando di Factory: piattaforma parallela che lavora per sostenere nuovi talenti, creare dialoghi fra discipline, immaginare forme di cinema ancora in divenire. Con Knuchel abbiamo parlato di questa dimensione meno evidente ma centrale, dove si mescolano formazione, ricerca, incontri, dietro le quinte del Festival.

Dall’Academy a BaseCamp fino alla Locarno Factory: cosa l’ha spinta a immaginare uno spazio così aperto e interdisciplinare?
Ho solo cercato di capire che cosa ha di speciale il nostro Festival rispetto ad altre realtà simili. Quando nel 2013 l’ex direttore artistico Carlo Chatrian e Mario Timbal mi hanno chiesto di creare uno spazio dedicato ai giovani talenti, ho risposto: lo faccio, ma non voglio replicare workshop standardizzati. Locarno è un festival d’autore che si è sempre aperto al dialogo, per tale ragione ho cercato il modo di creare uno spazio in cui si aiutasse – chi può ambire a dire qualcosa al mondo, o semplicemente chi ha qualcosa da dire – a focalizzarsi su chi sono e cosa vogliono dire davvero, più che su quello che manca loro per entrare nel mercato. La Svizzera è un Paese di cultura e di ricerca, Locarno è grande abbastanza per attrarre talenti, e piccolo abbastanza per farli incontrare davvero. È un equilibrio unico.

Nel suo lavoro con i giovani autori c’è un tipo di talento o approccio che la colpisce?
Quello che salta fuori, che emerge dal mucchio. Ogni anno riceviamo 900-1000 candidature per dodici posti nella Filmmakers Academy. Il lavoro è visionare tutte le proposte, e c’è sempre un momento in cui uno o due film si impongono fisicamente, ti costringono a guardarli. Spesso non sono i più perfetti, ma quelli con una voce propria, con un’identità geografica, linguistica, culturale. Non ci interessa chi recita la Bibbia del cinema, nemmeno se la rifanno meglio, ma chi aggiunge un capitolo nuovo. È un’esperienza quasi fisica: dopo ore e ore di visioni, all’improvviso capisci chi è davvero interessante. E tutti sono d’accordo, senza che ci si debba spiegare troppo. C’è anche un altro aspetto: si aggiorna continuamente il linguaggio. Se guardo i candidati di tredici anni fa e quelli di oggi, è cambiato tutto. Oggi vedo linguaggi più ibridi, contaminazioni, formati nuovi.

In che modo la sua esperienza personale di regista influenza la gestione della Factory?
Ho sempre lavorato fuori formato. Sono autodidatta. Ho avuto la fortuna di incontrare qualcuno che mi aprisse una porta senza essere tenuto a farlo. Quando ho chiesto come potevo sdebitarmi, uno di loro mi ha risposto di fare la stessa cosa con altri. Ed è quello che cerco di fare, cerco di riconoscere talenti senza controllare se le loro carte siano in regola. Per me conta costruire processi decisionali collettivi, non imporre un metodo. La biodiversità culturale è la condizione stessa della cultura.

Come riconoscere un talento?
C’è un documentario che mi porto dietro, si intitola Black Sun. Racconta di un pittore aggredito, reso cieco, costretto a ricostruire la propria vita. A un certo punto, in un taxi a Parigi, il pittore racconta la sua storia a un vietnamita. E quello gli risponde: «Anch’io ho una ferita – ho visto uccidere la mia famiglia – la differenza è che nessuno la vede». Ecco, per me l’arte è proprio questo: far emergere ciò che normalmente resta oscurato, integrare lo strambo, il non detto, il non visibile.
Lo dico sempre: questo mestiere lo fa chi ha un trauma e non riesce a metterlo a posto.

La formazione cinematografica oggi oscilla tra innovazione e tradizione. Anche la Factory tiene conto di questo equilibrio?
Totalmente. Il cinema è sempre stato sia tradizione sia innovazione. Se si chiude nel salotto della celebrazione diventa museo, se parte solo sull’avanguardia diventa elitario. Locarno vive perché ha saputo mantenere questa tensione. Facciamo retrospettive importanti e al tempo stesso portiamo linguaggi nuovi. Con Factory abbiamo creato un dipartimento che si occupa di tutto ciò che attorno al cinema fa riflettere sull’immagine, il rapporto con la società, con la ricerca scientifica, l’intelligenza artificiale… Ma il cuore resta sempre chiaro. E poi bisogna sempre tornare a nutrire la tradizione, a farla evolvere.

A distanza di tanti anni, ci sono state collaborazioni nate in questo contesto che più l’hanno colpita?
Ce ne sono molte, sin dal primo anno, quando abbiamo invitato ricercatori di biologia molecolare da Basilea, un progetto nato per far dialogare chi lavora su temi etici e umani con il mondo esterno, grazie all’arte quale territorio di condivisione. Ancora oggi cinque giovani scienziati vengono ogni anno e il confronto continua a dare risultati. Poi è nato un dialogo inatteso con il Botswana: una giovane curatrice culturale è venuta a BaseCamp, ha visto il modello, e ha iniziato a replicarlo su scala locale. Da quattro anni mandano a Locarno due persone del Botswana, e loro portano idee nuove. È uno scambio reale: ora ci chiedono anche di poter usare i nostri moduli didattici nei loro cinema e scuole d’arte. È un esempio concreto di come Factory diventi uno strumento utile, anche lontano da qui. Tutto questo, per me, rappresenta esattamente quello che cerchiamo di fare con BaseCamp e con la Factory. Non più la struttura culturale che decide tutto e si chiude su sé stessa. Oggi devi diventare un organismo attraversato da scambi, devi interagire. A volte porti l’80% del contenuto, altre volte solo il 20%, ma giochi comunque un ruolo in una conversazione continua. Ed è questo che ti permette di rimanere vivo.

La Factory non è solo per i talenti che vengono selezionati…
Sì, sebbene anche le attività che avvengono dietro muri chiusi non siano per questo meno valide, ci sono dei momenti che condividiamo con il pubblico. Il più evidente è il Pop Up, aperto ogni sera durante il Festival dalle 18 alle 21:30 a Sant’Eugenio  (ndr: vedi box). Lì si concentrano talk, performance, concerti. Quest’anno il tema centrale sarà il «Futuro della realtà» con un AI Game Show – guidato da artisti come Hito Steyerl, Radu Jude, Antonio Somaini – che combina immagini e narrazione per esplorare cosa sia vero o falso, usando il gioco come pretesto per una riflessione più ampia. Ma tutta la programmazione al Pop Up è pensata come un festival nel festival, aperto, accessibile e imprevedibile. Ogni sera succede qualcosa di diverso, da concerti a meditazioni sulle pietre. È il nostro modo di restituire al pubblico un’esperienza viva.

Durante il Festival ci sono altri momenti in cui il pubblico può incontrare i partecipanti della Factory?
Oltre al Pop Up, abbiamo gli Academy Screenings: proiezioni gratuite dei lavori realizzati dai partecipanti della Filmmakers Academy. È un’occasione preziosa per capire davvero dove stia andando il cinema e quali siano le nuove voci. Sono momenti che teniamo molto accessibili proprio perché ci interessa che il festival non sia solo vetrina, ma anche luogo di scambio.

Come si pone la Factory di fronte all’evoluzione del linguaggio cinematografico?
Cerchiamo di essere un corpo mobile, fluido. Ad esempio, stiamo avviando un progetto internazionale dedicato all’intelligenza artificiale, proprio perché è un tema che va affrontato a livello educativo, produttivo e creativo. Ma senza fissarsi: tra cinque anni l’AI non sarà più un tema isolato, sarà integrata. Noi vogliamo essere il centro da cui queste conversazioni partono e si irradiano.

Qual è il valore di fare formazione in un contesto festivaliero rispetto a un ambiente accademico?
È tutta un’altra cosa. Locarno permette di entrare in contatto diretto con l’industria, con registi, critici, produttori. C’è una densità di scambi che nessuna scuola può offrire. Il rischio e l’errore creativo trovano qui uno spazio reale, perché non siamo legati solo alla logica del risultato immediato. Siamo uno degli ultimi baluardi della biodiversità nel cinema, in un momento storico che tende a soffocare ogni forma di deviazione dal formato dominante.

C’è qualcosa che sente urgente raccontare oggi, come artista e curatore?
Più che un tema, un modo. Dare voce a prospettive diverse, forme diverse. Resistere alla standardizzazione, alla tematizzazione forzata. La biodiversità del pensiero è quello che conta. Non vogliamo selezionare secondo quote e checklist. L’importante è mantenere l’apertura.

Guardando avanti, quali sfide e opportunità vede per la Factory? Tenete traccia dei partecipanti?
Sì, ed è fondamentale. Negli ultimi anni due cineasti ex Filmmakers Academy hanno vinto il concorso Cineasti del presente, un altro ha vinto per la migliore regia. Ogni anno vediamo ex partecipanti tornare con progetti nuovi, entrare nel programma ufficiale. Locarno ha una rete fortissima, costruita in anni di lavoro. E non si tratta solo di cinema: il dialogo si estende anche a fotografia, arti visive, università. Ognuno ha un proprio percorso, ma resta collegato.

Quanto conta per voi la cattedra For the Future of Cinema dell’USI?
Conta molto, perché ci permette di consolidare il dialogo con il mondo accademico globale. Non è solo un progetto politico: è davvero un modo per dire che qui abbiamo un bene comune il quale, mettendoci assieme, dimostrerà il nostro valore sulla scena nazionale e su quella internazionale.

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