Cuore di pietra, cuore di steppa

Ecco che corre, zigzaga, ci scarta, si sfiata. È una saiga, una specie d’antilope, solitaria che, chissà come – di solito si dileguano al primo accenno d’un motore – quasi collide con il faro destro della Toyota Land Cruiser su cui solco da giorni questa steppa. Marrone, beige, oppure verdastra, si perde all’infinito, la steppa irsuta, o s’incaglia sbattendo contro un tavolato bianco, rive calcaree d’un oceano antico d’eoni ormai quasi scomparso.

La saiga è già lontana. Occhieggia, annusa e poi bruca.

Noi proseguiamo lungo i binari di terra e fango secco tra l’erba alta, che a volte si sdoppiano e partono verso chissà dove. Verso un branco di cavalli, o di cammelli, forse, o dromedari o nar, gli incroci pelosi d’una gobba o due. Oppure là, verso quella casa lontana, un tugurio di pietra, rifugio invernale di pastori erranti.

Ora tira un vento freddo. Qui c’è già sentor d’inverno. Il sole kazako però riscalda ancora questa valle chiara e così piena di meraviglie verticali, aguzze come guglie oppure tronche. Così la salita a piedi tra le rocce e gli arbusti di spine e fiori secchi mi fa stillare sudore e fiato grosso. Lassù, però, è come volare su Orione, o Marte, o chissà dove mi condurrà la fantasia, e respirare l’aria delle aquile, e poi sognare di planare dai picchi e dai pinnacoli giù, su quella sabbia bianca e morbida. Il vento soffia in faccia, e socchiudendo gli occhi sei davvero quell’aquila, e disegni cerchi nel cielo terso e guardi il mondo come fosse tuo.

La valle di Bozzhira è un sogno, per chi, come me, anela a deserti e roccia. Un sogno che sorge solitario come uno stilita dalla piana quieta e ondeggiante del grande mare dell’Asia Centrale.

Il Mangystau, regione estrema dell’Occidente kazako aggettante sul Mar Caspio, residuo di quell’oceano, il Tetide, che allagava gran parte dell’Eurasia interna, è culla di sorprese geologiche belle da far mancare il fiato. Tra le sue pieghe, si trovano fossili di conchiglie, di ossa di dinosauri. Si trovano denti di squalo. Materiale marino vecchio come il mondo. Ci sono pianure e altopiani, come quello di Ustyurt, un tavolato desertico pietroso e stepposo che s’estende fino a quel che resta del Lago d’Aral, una lastra calcarea e carsica piena di inghiottitoi e doline, che nascondono profondi laghi sotterranei. Ci sono depressioni che scendono a più di cento metri sotto il livello del mare, come a Karagiye. Ci sono caverne. Ci sono anche montagne, anche se la più alta, quella di Otpan (532m), da noi si direbbe collina. Ci sono colori, tanti, minerali: rosso, giallo, verde, marrone, rosa… strati d’ere geologiche che si sovrappongono. C’è addirittura un posto che ora, complice un mercato turistico in aumento, chiamano «tiramisù», in onore del dolce italico, ma nella versione rielaborata d’Asia Centrale. Kyzylkup, si chiama, o «molto rosso», per le sue venature che paion sciroppo, appunto. Ci si può perdere dentro, come in un labirinto a saliscendi.

E poi c’è il Tuzbayr, il grande lago salato, che se non è allagato per le piogge, appare come una distesa bianca e croccante a perdita d’occhio, bordata da una scogliera di gesso solcata da canaloni su cui ci si può arrampicare per abbracciare a sguardi l’enorme estensione candida e abbagliante. E d’estate, quando il caldo è torrido, si vede la magica fatamorgana, che da lontano trasforma cespugli in alberi, latte d’olio arrugginite in fantomatici viandanti, distese di sale in vaste pozze d’acqua che non arriveranno mai.

In queste lande inospitali, passava un tempo anche un ramo secondario della Via della seta. Il nome di Mangyshlak, originario della regione, si documenta da poco prima dell’anno Mille, proprio in relazione a qualche carovana di passaggio. Pare, dalle antiche carte, che la penisola sul cui capo sorge Fort Shevchenko un tempo arrivasse fin sulla sponda opposta, ora russa, e ne fosse la riva settentrionale.

Nelle steppe del Mangystau, quindi, navigavano carovane di centinaia di animali, asini, cavalli, cammelli, che recavano masserizie e merci. Tra mugghi e ragli e schiocchi di frusta portavano mercanti, o popoli in cerca di nuovi pascoli dove montare il prossimo campo, lontano da una guerra, o dalla siccità. A lungo marca di confine tra khanati, emirati e imperi in odor di fiaba, sempre pochi furono coloro che vi si stabilirono, fossero essi nomadi sciiti, sudditi degli scià persiani di Corasmia o dei khan khazari, o parte di orde turciche o mongole. Cumani, calmucchi, uzbechi, turkmeni, kazachi. Gente di poche parole che viveva di latte di cammello e razzie. Nelle sue lande aride si affrontarono per secoli le truppe degli zar con quelle del khan di Khiva. A metà dell’Ottocento i russi si stabilirono sulle rive del Caspio, fondando la fortezza di Novopetrovskoye, ora Fort-Shevchenko, e nella seconda metà del secolo inglobarono per sempre l’antico khanato.

In questa terra di silenzi, le genti della steppa hanno riempito il vuoto con le loro storie, i loro eroi a cavallo vestiti di pelliccia e i loro santi seduti nella polvere. Predicatori, mistici, asceti, guaritori che qui hanno scelto di trascorrere l’esistenza in nome dell’Islam, per diffonderne il credo e fare opere di bene. Come Beket-Ata, per esempio, un saggio sufi del XVIII secolo che, dopo anni di studi nelle rinomate madrase di Khiva, tornò con la parola di Allah nella sua terra natia e vi lasciò una delle moschee rupestri che, pur rade, costellano le falesie della regione. Sono ambienti raccolti, spogli, grotte sgrezzate dalla volontà dei fedeli, che tutto l’anno accolgono pellegrini dall’intera la regione. Come anche quella, non meno celebre, di Shopan-Ata, altro derviscio la cui storia scaturisce da leggende diverse, questa volta legate al maestro Khoja Ahmed Yasawi, il mistico del XII secolo tanto celebre da meritarsi il grande mausoleo che ancora dà lustro alla città kazaka di Turkestan. È proprio lì, davanti alla porta di roccia della moschea di Shopan-Ata, che uno dei pellegrini seduti in buon ordine sulle panche in attesa di farsi ricevere dall’imam per le benedizioni, da sotto il suo kalpak nero (il berretto locale), mi racconta che sta compiendo una sorta di percorso votivo recandosi ai più importanti eremi della regione, rimettendo alla bontà di Dio la malattia incurabile della figlioletta.

Nel complesso, accanto alla vasta necropoli che sempre accompagna il sepolcro di un sant’uomo, c’è anche una casa per i pellegrini, dove le donne, volontarie, preparano di continuo il desco per chi viene a recare omaggio al santo. Ci si siede tutti insieme a terra, attorno a una tovaglia di plastica lunga molti metri imbandita di dolciumi, pane, frutta, tè. Qualcuno, proprio lì, mi consiglia di visitare anche Shakpak-Ata, che in effetti è forse la più bella di queste moschee ipogee, con le sue colonne sbozzate nel gesso e le sue nicchie incorniciate.

Ma il Mangystau non nasconde soltanto questi gioielli candidati alla lista del patrimonio Unesco. Ci sono tanti minerali ghiotti per l’industria. Ci sono enormi giacimenti di petrolio. Quando li scoprirono, nel XX secolo, ci vennero in tanti a lavorarci: russi, ucraini… Poi, crollato l’Urss, tutto divenne kazako. Ora, il suo capoluogo Aktau, una città moderna sul Caspio, oltre a essere la base di quest’industria, è ambita meta marittima dei danarosi della capitale, Astana, o di Almaty, ansiosi di trovarvi il proprio posto al sole. Anche se un sole a tratti freddo come un sole siberiano. O come il vento che stanotte, ululava nella mia tenda.

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