«Scoprire di avere l’ADHD da adulto è stato come dare finalmente un nome a tutto quello che mi faceva sentire “diverso”. Sul lavoro faccio fatica a restare concentrato a lungo, passo da un compito all’altro senza finirlo e rimando le scadenze fino all’ultimo secondo. Anche nella vita personale è difficile: dimentico appuntamenti, parlo sopra gli altri senza volerlo, e mi sento spesso sopraffatto. Non è mancanza di impegno, è che la mia mente non si ferma mai». Giacomo (nome noto alla redazione) ha 41 anni e racconta della sua quotidianità che gli «costa fatica» e che lo porta ad essere socialmente frainteso: «Ad esempio, aspettare in fila o gestire scartoffie burocratiche per me può essere estremamente frustrante: mi assalgono noia e impazienza, mentre chi mi vede dal di fuori pensa, a torto, che io sia impulsivo e smanioso». E su lavoro: «Se sono concentrato o immerso nel mio lavoro e mi interrompono, mi risulta difficilissimo riprendere il filo e questo mi infastidisce parecchio. Naturalmente, gli altri non ne comprendono i motivi». Non va meglio con la memoria: «Sembro distratto e svogliato, mentre in realtà senza scrivermi una lista, un promemoria o senza mettere una sveglia, non riesco a ricordare impegni, scadenze o, peggio, fatico a ricordare persino dove ho lasciato le chiavi dell’auto. E tutti questi aiuti non sempre funzionano».
L’ADHD (Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività) è spesso associato ai bambini, ma molte persone adulte ne soffrono senza saperlo. Di fatto, uno studio dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) del 2008 lo descrive come «un disturbo comune dello sviluppo neurologico che colpisce circa il 3,5% degli adulti». Abbiamo intervistato lo psichiatra Michele Mattia, presidente ADHDti, per comprendere meglio come questo disturbo si manifesta negli adulti, la diagnosi e le opzioni di trattamento disponibili. Egli conferma quanto condiviso da Giacomo: «L’ADHD nell’adulto si presenta principalmente con difficoltà di concentrazione, impulsività, iperattività, disorganizzazione e tendenza alla procrastinazione, e questi sintomi possono influire negativamente sulla vita quotidiana, sulle relazioni e nella professione. È importante notare che può manifestarsi diversamente rispetto all’infanzia, spesso in modo meno evidente ma altrettanto debilitante».
I sintomi più visibili non sono che la punta di un iceberg, una metafora usata dallo specialista, che porta alla luce le profonde difficoltà di chi vive questa condizione: «La metafora dell’iceberg è significativa per la comprensione dell’ADHD, perché aiuta a distinguere tra ciò che è visibile all’esterno (i sintomi più evidenti) e ciò che invece è nascosto sotto la superficie (le difficoltà più profonde e pervasive)». Della «punta dell’iceberg» visibile fanno parte: «Disattenzione, iperattività, impulsività, dimenticanze frequenti, disorganizzazione, interruzioni durante le conversazioni e incapacità di restare seduti o concentrati: caratteristiche purtroppo giudicate negativamente, come se fossero causate da mancanza di volontà o educazione, mentre bisogna stigmatizzare il pregiudizio che si è dinanzi a una persona che accampa scuse per giustificare la sua disorganizzazione o evitare responsabilità».
Lo psichiatra scava nella parte sommersa del disturbo: «È quella più grande e importante spesso invisibile, ma che condiziona profondamente la vita di chi ha l’ADHD: parliamo di bassa autostima, ansia e stress costante, senso di colpa e vergogna, stanchezza mentale cronica, difficoltà nella gestione del tempo, problemi nelle relazioni sociali, disturbi del sonno, frustrazione per non riuscire a raggiungere il proprio potenziale e sovraccarico sensoriale o emotivo». Da qui l’importanza di riconoscere l’ADHD nell’adulto, che però solo dal 2013 è esplicitamente normata nei criteri diagnostici aggiornati e ampliati nei manuali DSM (Diagnostic and Statical Manual of Mental Disorders), pubblicati dall’American Psychiatric Association: «Per lungo tempo l’ADHD era formalmente riconosciuta solo nell’infanzia e nell’adolescenza e questo ha reso difficile per lungo tempo la diagnosi nell’adulto; oggi dal DSM-5 in poi, la diagnosi nell’adulto è esplicitamente normata anche senza una diagnosi ricevuta da bambino, purché vi siano evidenze che i sintomi fossero presenti dai 5 ai 12 anni». Diagnosi che preferenzialmente va posta da uno psichiatra o da uno psicologo clinico esperto in ADHD, per la quale si evince l’importanza di un’anamnesi accurata e personalizzata che sta alla base dei criteri diagnostici: «Fra l’altro, parliamo ad esempio di riconoscere disattenzione e/o iperattività e impulsività che si manifestano in modo diverso rispetto all’infanzia, con minore iperattività fisica, più disattenzione, procrastinazione, irrequietezza interna».
Le comorbidità riscontrate nelle persone con ADHD dimostrano l’importanza di definirla per poi procedere con la scelta di un adeguato percorso terapeutico: «Uno studio norvegese su 49mila soggetti (Sorberg et. Al. 2018), ha evidenziato che questo disturbo incrementa dalle 4 alle 9 volte i tassi di ansia, depressione, bipolarità, disturbi della personalità, schizofrenia e disturbo da sostanze». Inoltre, un recente studio condotto dall’Università di Ginevra (pubblicato dalla rivista «Psichiatria e Neuroscienze cliniche») ha pure messo in luce una possibile sorprendente connessione tra l’ADHD e il morbo di Alzheimer, come afferma il professor Paul Unschuld, primario del Dipartimento di Psichiatria Geriatrica dell’HUG e iniziatore dello studio: «Recenti studi epidemiologici dimostrano che gli adulti con ADHD hanno un rischio più elevato di demenza in età avanzata, ma il meccanismo di correlazione del rischio con l’ADHD non è noto». Sebbene la causa diretta non sia determinata, questi risultati suggeriscono l’importanza di monitorare nel tempo la salute cognitiva delle persone con ADHD (a cominciare dalla diagnosi) il cui trattamento risulta essere efficace. Il dottor Mattia così riassume il percorso che, dalla diagnosi, conduce alla scelta terapeutica: «La diagnosi clinica comprende la conoscenza della storia clinica esaustiva, esami medici, rating scales (ndr: scala di identificazione del dolore) e interviste diagnostiche, test neuropsicologici, diagnosi differenziale con un team specializzato multidisciplinare, ed è seguita da un trattamento multimodale che comprende farmacoterapia e monitoraggio della loro efficacia, psico-educazione, psicoterapia cognitivo-comportamentale, coaching, tutoring, interventi psicosociali, mantenimento dell’aderenza al trattamento e periodica rivalutazione. Da ultimo, grande beneficio è dato dai gruppi di sostengo o di supporto».
Il dottor Mattia sottolinea infine «la parte prioritaria» della farmacoterapia nel trattamento: «Poiché dal lato neurobiologico, nell’ADHD emerge un deficit dopaminergico che gli psicostimolanti possono colmare». In conclusione, si può affermare che l’ADHD non è solo «non stare fermi» o «dimenticare le cose», ma un disturbo neurobiologico complesso che influisce su molte aree della vita: «È fondamentale comprendere oltre la punta dell’iceberg, e giungere a una diagnosi che permette di pianificare un supporto reale, farmacologico ed empatico a chi ne è affetto. Riconoscere questo disturbo e intraprendere un trattamento adeguato sono passi fondamentali che migliorano la qualità della vita».