Locarno guarda a Ovest

by Claudia
11 Agosto 2025

Film Festival –1: un western disturbante e favolistico sull’alienazione, fuori concorso, e uno italiano in Piazza Grande

«In memoria di David Lynch, il cui spirito creativo ha ispirato il mondo di Legend of the Happy Worker». Questa, la scritta che appare alla fine del film presentato in anteprima mondiale al Locarno Film Festival e che è, in sostanza, l’ultimo lavoro – non come regista, ma produttore – del visionario autore di Twin Peaks.

Certo, il film non è diretto da lui, ma da un suo stretto collaboratore: Duwayne Dunham, già montatore di numerose opere lynchiane. Tuttavia, Lynch è alla base del progetto e figura centrale nella sua ideazione e sviluppo. L’idea originale nacque infatti da un copione scritto da Lynch, ispirato all’opera teatrale The Happy Worker Play di S. E. Feinberg.

Una sceneggiatura più cupa e provocatoria rispetto alla versione definitiva, incentrata su un gruppo di lavoratori intenti a scavare buche senza sapere il perché, finché uno di loro non mette in discussione il sistema: viene premiato, ma proprio questo premio lo condanna all’isolamento e al disprezzo degli altri. Un apologo amaro sul conformismo e sulla punizione dell’individualismo.

Il progetto rimase in sospeso per oltre trent’anni, passando attraverso diverse fasi, fino a quando, dal 2018, ha iniziato a prendere forma concreta. Alla fine, la sceneggiatura originaria non è stata utilizzata, ma l’impronta lynchiana si avverte comunque.

Il film si inserisce all’interno di un genere classico che negli ultimi anni tenta di riacquistare una nuova stagione: il western. Dopo un lungo periodo di declino, il genere viene regolarmente riscoperto da registi giovani e meno giovani, che lo reinterpretano in chiave moderna o ne recuperano con rigore la struttura narrativa. Legend of the Happy Worker (vedi immagine) si muove all’interno di questo universo, ma lo fa in modo originale, ibridandolo con elementi fiabeschi, simbolici e grotteschi.

Un altro esempio recente è Testa o Croce, di Alessio Rigo de Righi e Matteo Zoppis, presentato a Cannes e proiettato anch’esso a Locarno proprio ieri, cioè nella serata di domenica: una rilettura fantasiosa e ironica del western, dove butteri italiani (ndr. cavalieri della maremma) e cowboy americani si confrontano in un leggendario rodeo. E non è l’unico caso: basti citare il recente Horizon di Kevin Costner (2024) – con il suo ritorno alla frontiera classica – o La ballata di Buster Scruggs dei fratelli Coen (2018), che frammentano il genere in episodi tra il comico, il tragico e il surreale, o ancora I fratelli Sisters di Jacques Audiard (2019), che decostruisce l’epica per concentrarsi su aspetti più intimi e umani.

Legend of the Happy Worker appartiene a pieno titolo al tentativo di rianimare un genere in fin di vita, pur distinguendosi per il tono favolistico che lo rende quasi onirico, a tratti surreale, certamente meno realistico. La trama segue una linea semplice, come nelle fiabe: al centro c’è Joe (Josh Whitehouse), giovane lavoratore devoto ai valori del suo mentore Goose (Thomas Haden Church), che però viene progressivamente sedotto dalla modernità. La sua trasformazione, che tocca anche la sfera familiare – con un cambiamento evidente nei rapporti con moglie e figlio – è rappresentata con grande forza visiva. I colori caldi e saturi dell’inizio lasciano spazio a tonalità cupe e claustrofobiche, che dominano le scene in cui appare lo scavatore: una macchina quasi demoniaca, simbolo di un nuovo capitalismo senza scrupoli e di una produttività cieca e lontana dai valori umani.

Anche i paesaggi non sono semplici sfondi. Girato in location iconiche dell’Ovest americano come Echo Canyon e Monument Valley, il film utilizza questi luoghi come specchi dell’interiorità dei personaggi. La narrazione è intessuta di rimandi religiosi, filosofici e persino mitologici. Il rapporto tra Joe e Goose richiama archetipi antichi: come la relazione che da sempre ha alimentato le scritture e cioè quella tra maestro e discepolo. La pala d’oro, oggetto totemico, si carica di significati esoterici e spirituali: è strumento di lavoro, ma anche simbolo del sapere tramandato e del potere che può corrompere. Particolarmente potente è la scena in cui Joe, specchiandosi, si confronta con la propria parte oscura, immediatamente seguita da un surreale dialogo con un criceto in gabbia, che corre senza sosta su una ruota: un’immagine disturbante ma eloquente del ciclo senza senso del lavoro alienato.

La colonna sonora, firmata da Jan A.P. Kaczmarek e Phil Marshall, accompagna la narrazione con sensibilità e ambivalenza, alternando registri solenni e ironici, sospesi tra l’epico e il grottesco. Rafforza così il dualismo di fondo che attraversa tutto il film: quello tra illusione e realtà, tra speranza e disincanto.

Oltre che un racconto simbolico, il film è anche una riflessione esplicita sulla manipolazione generazionale, sul compromesso come scelta sistemica, sulla perdita progressiva dei valori legati al lavoro ed espressione di dignità e non solo di produttività. L’ultima battuta del protagonista – «Dove c’è speranza c’è vita» – suona ambigua, sospesa tra sincerità e autoinganno. È una chiusura che lascia interrogativi aperti, più che offrire certezze.

Detto ciò, alcune scelte narrative risultano discutibili. La rappresentazione familiare, con un protagonista bianco, una moglie nera e un figlio latino, appare un po’ forzata, rientrando in una certa tendenza woke che rischia di scivolare nell’artefatto: invece di suggerire nuove prospettive, sembra voler soddisfare una quota di inclusività precostituita. Inoltre, la struttura della fiaba, con la netta divisione tra buoni e cattivi, rischia di appiattire la complessità etica del racconto. In un’opera che ambisce a interrogarsi sul potere, sul lavoro, sul desiderio e sulla sottomissione, questa polarizzazione simbolica può apparire riduttiva, e rendere la lezione finale meno profonda e più prevedibile.

Eppure, proprio in questa tensione tra semplicità e ambizione risiede forse il fascino del film: Legend of the Happy Worker non vuole spiegare, ma evocare. E nel farlo, lascia spazio a quello sguardo obliquo, onirico, fiabesco e inquieto che, da sempre, ha abitato il mondo di David Lynch.

Un film che è anche un’eredità parziale del regista di Blue Velvet. Non è sicuramente una sua opera, ma può di certo abitare nel suo quartiere ed essere un buon vicino di casa che magari, ogni tanto, viene invitato a bere un bicchiere.