È un quesito che mi sono posto e che ha preso ulteriormente corpo quando Noè è entrato in piscina per affrontare la finale mondiale dei 100 delfino. A meno che i tecnici della RSI non abbiano giocato con i volumi, è parso palese che il boato più fragoroso fosse proprio quello che ha accolto il nostro beniamino. È accaduto a Singapore a oltre 10mila km da dove è nato e cresciuto. Dubito che in Estremo Oriente ci fosse una delegazione di cinquemila ticinesi.
È accaduto a un nuotatore che, pochi giorni prima, aveva vinto la sua prima medaglia (argento) in un Mondiale in vasca lunga. Mi sono chiesto persino se il boato fosse figlio delle sue prodezze in vasca corta, dove è senza dubbio il numero 1 al mondo nelle sue specialità, in virtù della sua straordinaria virata, seguita da una fase subacquea da urlo. Non sono stato capace di darmi una risposta. Da tempo, prendo però atto che Noè Ponti, diversamente da quanto accade per altri protagonisti dello sport, non è divisivo.
Da noi lo è in dosi irrisorie, nonostante si sia palesemente schierato sul fronte dell’Ambrì-Piotta. Una macchia imperdonabile in un cantone soprannominato Derbylandia. Sui social media, la stragrande maggioranza degli internauti sta dalla sua parte. L’opinione pubblica ha sorriso dopo che in un’intervista televisiva era riuscito a sdoganare il termine gergale col quale viene denominato l’organo sessuale maschile, e quando, proprio a Singapore, ha chiamato in causa la madre di Gesù per definire il suo riscontro cronometrico nella finale dei 100 delfino. Chi perdona, ama. Mi rimane ancora qualche piccola fetta dell’interrogativo iniziale.
Noè non appartiene alla ristrettissima schiera delle divinità del nuoto. Su tutti Michael Phelps, ingobbito dalle 23 medaglie d’oro olimpiche e dalle 26 iridate che si è messo al collo. Sono 83, se includiamo argento e bronzo. Come la sua connazionale Katie Ledecky, 28enne ancora in luce nell’edizione di quest’anno, la quale, come pochissimi altri, appartiene a coloro a cui tutto sembra riuscire con facilità disarmante. Al punto che lo Squalo di Baltimora, e il suo delfino Ryan Lochte – che ha conquistato «solo» 6 ori olimpici e 39 iridati tra vasca lunga e corta – si sono permessi di muovere pesanti critiche alla delegazione americana reduce da un buon mondiale, ma non stellare.
Noè Ponti, non ha atteggiamenti da supereroe. Ostenta il fascino del bravo ragazzo. Quello che deve lottare giorno dopo giorno per conquistarsi un metro quadrato di Olimpo. Quello che lo fa sempre col sorriso. Che è certamente dotato di suo, ma che, nonostante ciò, non deve mollare di una virgola, altrimenti sbuca un nuovo avversario che fa scattare la fotocellula qualche centesimo prima di lui. Questa tenacia, questa capacità di soffrire, il nuotatore locarnese, non la millanta. Non la vende ai saldi. Traspare da tutto ciò che fa. Dall’incedere dinoccolato. Dalla mimica facciale. Dagli sguardi. Emerge prepotentemente soprattutto dalle interviste.
Pochi secondi dopo aver conquistato la sua seconda medaglia d’argento, Noè si è dapprima complimentato con il vincitore, il francese Maxime Grousset, di due anni più anziano, dotato di una massa muscolare pazzesca. In seguito ha aggiunto che proverà a sconfiggerlo a casa sua, agli Europei del prossimo anno che si terranno a Parigi.
Noè, lo sappiamo, non è un alieno. È semplicemente un campione. Uno che ha ancora degli obiettivi da porsi, dei traguardi da raggiungere. L’oro olimpico e quello iridato non sono una chimera. Perché la sua determinazione è gigantesca. A noi pare che lui esista da sempre. Abbiamo cominciato a seguirlo e ad apprezzarlo quando era poco più di un bambino. Ha solo 24 anni. Ha vinto molto, ma si è preso anche le sue belle mazzate. Eppure, giorno dopo giorno, centesimo dopo centesimo, prosegue la sua scalata, col sostegno del suo allenatore Massimo Meloni e del suo staff. Con l’amore e la discrezione con cui lo seguono i famigliari.
A uno che si mette in gioco costantemente, che non si nasconde mai, come si può non voler bene?