E se per dessert ci mangiassimo il robot?

E se un giorno per dessert ci servissero… un robot? Non è fantascienza: è la frontiera, molto concreta, a cui sta lavorando da anni un gruppo di ricercatori, guidati da Dario Floreano, professore di robotica al Politecnico federale di Losanna (EPFL), fra i maggiori esperti al mondo di soft robotics, la robotica soffice: una branca della robotica che al posto di acciaio e bulloni, usa materiali soffici capaci di adattarsi all’ambiente, ispirata a piante, animali e ora anche il cibo, l’ultima frontiera. Dopo anni di prototipi e ricerche, lo scorso 6 giugno il progetto europeo RoboFood, a cui lavora il prof. Floreano, ha avuto un importante momento pubblico all’Expo di Osaka 2025: davanti a media e ospiti illustri, tra cui l’Ambasciatore dell’Unione europea in Giappone Jean-Eric Paquet, è stata servita la prima RoboCake – una torta animata da orsetti gommosi che si muovono grazie a micro-attuatori ad aria e candele accese con batterie di cioccolato. Un evento organizzato in collaborazione con il Science & Technology Office Tokyo, l’Ambasciata Svizzera in Giappone e Presenza Svizzera.

Dietro un’idea che stuzzica non solo il palato, ma anche l’immaginazione e la curiosità, fra cucina sperimentale e intrattenimento, si cela un obiettivo ambizioso: unire robotica e scienze alimentari per dare vita a dispositivi commestibili, biodegradabili e persino nutrienti. «I robot commestibili – spiega Dario Floreano – potrebbero offrire funzionalità e servizi innovativi per la salute umana e animale, ma anche per l’ambiente. In una situazione di emergenza, con persone isolate, per esempio, potrebbero portare nutrimento salvavita, essi stessi sarebbero il nutrimento, oppure somministrare farmaci e vaccini ad animali malati che vivono in ambienti selvatici e difficilmente accessibili». Il principio è semplice quanto rivoluzionario: progettare robot con materiali commestibili, attingendo ai principi della soft robotics, creando robot fatti di gelatine, zuccheri, proteine e fibre vegetali. Esistono già robot soffici che saltano come cavallette, droni con ali di riso soffiato, sensori e batterie mangiabili, ma è una sfida che richiede grande interdisciplinarità. Non a caso, RoboFood è un progetto che riunisce prestigiosi istituti, il Politecnico di Losanna (EPFL), l’Istituto Italiano di Tecnologia, l’Università di Wageningen in Olanda, e altri centri di eccellenza. In fondo, un robot non è altro che una macchina che ha la capacità di percepire l’ambiente e di muoversi, manipolare oggetti e spostarsi, dotato di circuiti e un’intelligenza che trasforma i segnali sensoriali in comandi motori.

Come costruire sensori mangiabili?

Ma come si fa a costruire sensori o batterie che siano anche mangiabili? «È possibile – spiega Floreano – creare circuiti logici che sfruttano liquidi pompati attraverso piccoli canali con delle valvole che regolano il passaggio a seconda delle variazioni di pressione. Possiamo cioè ricreare piccoli circuiti logici, di solito fatti con sistemi elettrici, con fluidi, tubicini e valvole mangiabili. E possiamo fare anche delle batterie pneumatiche che generano pressioni diverse, grazie a gas edibili generati da reazioni chimiche che usano, per esempio, acido citrico e acqua all’interno di contenitori di gelatina». L’idea è quella di creare un “cibo animato” capace di cambiare colore, odore e forma prima di essere mangiato, robot che saltano, volano, nuotano, che si muovono interagendo con l’ambiente grazie a specifici attuatori, sensori e batterie edibili fatte di sostanze nutrienti dalle consistenze diverse. Uno dei primi progetti realizzati dal prof. Floreano è stato un drone con ali di biscotto, così leggere da volare, ma anche abbastanza nutrienti da costituire una razione di emergenza. «Se invece di usare materiali sintetici, costruissimo droni con sostanze commestibili, in caso per esempio di persone isolate potremmo sfruttare la massa del drone come nutrimento e usare le possibilità di carico per trasportare solo acqua o medicinali», spiega Floreano.

Il laboratorio di Dario Floreano è un’officina delle meraviglie, il luogo perfetto per un appassionato bricoleur ad alto contenuto tecnologico: studiando per esempio biologia e dinamica del volo di uccelli e insetti riesce a ricreare macchine robot volanti e a capire i meccanismi del movimento. Ogni progetto nasce da uno sguardo aperto e curioso verso il mondo della natura. «L’idea di creare robot edibili – racconta Floreano – è nata per caso: un giorno, un mio dottorando mi fece notare che pur creando robot ispirati ad animali e piante, nessuno dei nostri robot poteva essere mangiato. All’inizio la presi come una battuta, poi capii che c’era qualcosa di profondo. Negli ultimi anni, soprattutto fra chi si occupa di robotica soft, sta crescendo la sensibilità verso l’uso di materiali biodegradabili; cerchiamo soluzioni per creare robot che non inquinino, perché se la promessa della robotica è quella di diventare onnipresente e pervasiva, dobbiamo stare attenti a non creare altri rifiuti difficili da smaltire. Perché non realizzare allora robot commestibili?».

Ogni anno si producono circa 40 milioni di tonnellate di rifiuti elettronici, pari a 109 grattacieli Empire State Building. Un robot biodegradabile o, meglio ancora, edibile, potrebbe chiudere idealmente il suo ciclo di vita senza lasciare traccia. Il potenziale di queste tecnologie è enorme. Uno scenario particolarmente interessante riguarda il contenimento di epidemie nel caso di fauna selvatica e allevamenti, spiega Dario Floreano: «Se potessimo lanciare da un aereo microscopici robot edibili con dosi di vaccini in zone selvatiche difficilmente raggiungibili dove si trovano focolai di malattie animali, e se questi robot potessero spostarsi, emettere odori e suoni capaci di attirare gli animali malati, facendosi mangiare potrebbero contribuire a diffondere vaccini e farmaci, riducendo la diffusione di malattie», il riferimento è alla peste suina che, anni fa, costrinse a sopprimere milioni di maiali in tutta Europa.

Che dire poi del potenziale valore educativo di un cibo «animato»? Che reazione avremmo di fronte a una crocchetta di pollo che salta nel piatto o un dessert che strizza l’occhio? È probabile che ci metterebbe a disagio, ma l’idea di fondo è antica e ben radicata in altre culture, dice Floreano: «In Giappone, si usano per esempio alimenti come i bonito flakes – scaglie di pesce essiccato che si muovono con il vapore del cibo caldo – o piatti con tentacoli di polpo ancora reattivi. Noi occidentali siamo abituati al cibo inerte, ma in molte culture la linea tra ciò che è vivente e ciò che rappresenta un alimento è molto sottile». Ridare movimento al cibo potrebbe contribuire a riscoprirne le origini, a rallentare i ritmi del pasto, a incuriosire i più piccoli e, magari, insegnarci a mangiare meglio, sperimentando nuove forme di cucina: «Si parla già da tempo di cucina multisensoriale, odori, colori, suoni… ormai fanno parte di ogni esperienza gastronomica di qualità, potremmo aggiungere anche movimento e reazione», spiega Floreano. E chissà che domani tutto questo non abbia anche un impatto sulla medicina e la cura, è solo un’altra delle tante possibilità d’uso: alimenti robotici potrebbero facilitare la deglutizione in persone con disturbi neurologici o somministrare farmaci in modo interattivo.

Dal RoboCake di Osaka al drone snack, non sono solo prototipi, sono frammenti di un futuro in cui la tecnologia si fa cibo e il cibo diventa portatore di consapevolezza. Miniaturizzare i componenti, prolungarne la conservazione, affinarne la consistenza e la gradevolezza al palato: è così che nei laboratori di Losanna si sperimentano nuovi sensori fluidici, attuatori, circuiti logici che si possono mangiare e transistor di zucchero carbonizzato. E se tutto questo ci dicesse che la frontiera più audace non è costruire robot che somigliano all’uomo, ma immaginare macchine, molto semplici, che ci nutrono, risolvono problemi e scompaiono in un boccone, e che la natura e la tecnica sono da sempre alleate, persino a tavola?

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