Il Dio in cui non credo

Non credo nel Dio di Vladimir Putin e del suo tirapiedi spirituale, il patriarca di Mosca Kirill, secondo i quali l’invasione dell’Ucraina è una guerra santa, una sacra battaglia contro la decadenza morale dell’Occidente che lascia sfilare masse debosciate di LGBTQ+ e abbandona i veri valori, e che presentano piamente il conflitto contro Kiev come una crociata necessaria per la salvezza spirituale del mondo. 

Non credo neppure nel Dio di Benjamin Netanyahu e dei suoi sodali ultraortodossi e teo-nazionalisti che ordinano lo sterminio dei palestinesi e al tempo stesso esentano dal servizio militare i loro studenti delle yeshivot (scuole religiose) perché devono occuparsi di un servizio divino superiore. Né in quello dei terroristi di Hamas che predicano il dovere morale dello sterminio degli israeliani facendosi scudo dei corpi dei civili palestinesi e abusano del suo nome per commettere i peggiori crimini contro le persone e contro il loro stesso Dio.

Però credo nel messaggio radicale del cristianesimo e del suo fondatore, così follemente pacifico da invitare a non distruggere mai i nemici, per pessimi che siano, ma – addirittura – ad amarli e, quando scatta l’onda cieca della violenza, a riporre la spada nel fodero. Perché «chi di spada ferisce, di spada perisce» (Matteo 26:52). Credo anche alle parole illuminate del Corano, laddove recita che «chi uccide una persona innocente, è come se avesse ucciso tutta l’umanità; e chi salva una vita, è come se avesse salvato tutta l’umanità» (Surat al-Ma’ida, 5:32). Stesso messaggio: «Chi salva una vita, è come se avesse salvato il mondo intero», leggo nel Talmud (testo rabbinico), Sanhedrin 37a.

Non credo nel Dio di Donald Trump, seguace della teologia della prosperità, che – anche se non lo dice – detesta i poveri, perché se son poveri è colpa loro: non hanno abbastanza fede o non hanno «seminato» abbastanza (cioè donato denaro alla Chiesa), e quindi meritano l’indigenza, mentre la ricchezza materiale è il segno distintivo del vero credente. Non credo neppure nel Dio di J.D. Vance, vicepresidente Usa, che reinterpreta il concetto teologico di S. Agostino dell’ordo amoris, sostenendo che l’amore e l’aiuto debbano seguire una precisa scaletta: prima i più vicini – la famiglia, la comunità, la Nazione – poi, ma anche no, gli stranieri e i migranti. 

Però credo nel Dio del capitolo 25 del Vangelo di Matteo che non ha in uggia i poveri Cristi, al contrario. E non stabilisce alcuna gerarchia tra chi merita la salvezza e chi no, il criterio è la vulnerabilità, e dice:  «Avevo fame e mi avete dato da mangiare, avevo sete e mi avete dato da bere, ero forestiero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi». Una visione in cui sono gli ultimi i più vicini a Dio, non il contrario.

Non credo, infine, nei rosari del leader italiano Matteo Salvini, che li bacia nell’aula laica del Senato a Roma, e li brandisce come un’arma contro la decadenza identitaria dell’Europa cristiana (toh, mi ricorda il patriarca Kirill e il presidente Putin) e contro i migranti provenienti dal sud di religione islamica. Ma credo al dolore di quella madre di duemila anni fa, invocata come un mantra nei rosari, che piangeva sotto la croce di un figlio innocente, condannato, torturato e ucciso e a tutte le madri israeliane, palestinesi e di ogni parte del mondo che oggi versano silenziose lacrime per i propri cari spariti per guerra, per fame o per annegamento in un mare d’acqua o di ostilità in nome di Dio.

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