Il ritratto di Sitti Maani

[Segue dal numero 30 di «Azione»] Ma Pietro voleva che il mondo intero ricordasse per sempre la straordinaria Sitti Maani. Il 27 marzo 1627 allestì nella chiesa dell’Ara Coeli un catafalco circolare in legno dipinto: l’apparato effimero era sormontato da una corona d’oro tempestata di finte gemme, sorretto da sculture delle Virtù, fra stemmi, sigilli siriaci, teschi, il ritratto e dodici epitaffi in altrettante lingue. Il funerale, sorta di sacra rappresentazione con «pompa solenne», fu talmente stravagante che se ne parlò per decenni.

L’amico Girolamo Rocchi ne pubblicò la relazione, e Della Valle stesso diede alle stampe l’appassionata orazione funebre.

Il ritratto di Sitti Maani era basato su quello del fiammingo Giovanni Lucassen, ingaggiato da Pietro a Costantinopoli perché documentasse le sue esplorazioni e i ritrovamenti archeologici. Lo aveva spedito a Roma, incompiuto, dopo la partenza del pittore, per presentare – intanto in effigie – la sua sposa. Occhi scuri, sguardo altero, indossa un caffettano, di seta, con larghe maniche; alla cintura il khanjar, pugnale arabo col manico d’oro.

Un copricapo chiuso sotto il mento le copre i capelli neri. Non ha la pelle «brunetta» né gli occhi bistrati con lo stibio, che invece Pietro vantava per lettera. Orientale esotica, ma già adattata al gusto europeo.

In seguito, lontana ormai la stagione epica della vita, Pietro – stimato trattatista di politica internazionale, musicologo, linguista, orientalista, padre di famiglia e costernato assassino di un garzone svizzero dei Barberini che aveva insultato il suo staffiere indiano – volle pubblicare le lettere scritte a un amico napoletano dalla Turchia, dalla Persia e dall’India.

I tre volumi (ma lui morì nel 1652 e ne vide a stampa solo il primo) divennero il libro di viaggi più letto del Seicento. Sitti Maani è la protagonista delle pagine più avvincenti. Usa arco e archibugio, sa difendersi da leoni e predoni. Dotata di fine giudizio e memoria, parla arabo e armeno, capisce il curdo, il turco e il georgiano, impara il persiano, studia il portoghese, l’indiano e l’italiano.

Ma conosciamo la sua voce solo attraverso di lui: lo scartafaccio con le storie, gli aneddoti e le sagge osservazioni «uscite dalla sua bocca» andò perso in mare durante il trasbordo su una goletta inglese, nel 1623.

Resta la trascrizione del suo sogno profetico: un Franco entrava nella sua stanza per portarla via. Quando il giorno dopo, nella fresca ombra di un sotterraneo di Baghdad, incontrò Pietro, lo riconobbe: era lui il Franco. Gli offrì un pomo cotogno. Aveva diciotto anni. Per Pietro, già acceso dai racconti sulla ragazza, fu amore a prima vista. Forse anche per Sitti Maani.

Della Valle era un affascinante occidentale di trent’anni con barba alla turca, reduce dalla guerra di corsa alle Kerkennah, dal pellegrinaggio in Terra Santa e da vagabondaggi in Egitto; intrepido, generoso, poliglotta. Curioso del mondo, irrequieto, impaziente, viaggiava per «desiderio di vedere paesi e costumi diversi», ma anche con ambizioni diplomatiche e religiose.

Si parlavano in latino. Le resistenze dei genitori di lei durarono poco. Si sposarono, esplorarono insieme i siti archeologici sul Tigri e Ctesifonte, e appena tre mesi dopo le nozze Pietro la portò con sé in Persia: Sitti Maani lasciò famiglia, patria, lingua, religione e lo seguì.

Dopo un viaggio avventuroso nella Jezirah e tra le nevi del Kurdistan, Pietro si stabilì a Isfahan, presso la corte di Abbas II. Lei, sempre accanto: cavalcando all’amazzone partecipò pure alle campagne militari dello scià contro i Turchi. Incarnazione di Clorinda, l’eroina di Tasso, Pietro la soprannominò «la Guerriera». Coraggiosa, intelligente, sua segretaria e fida consigliera: la celebrò in vita e in morte come una «meraviglia» (le dedicò pure 27 componimenti: un Canzoniere).

Sitti Maani si sarebbe ambientata, a Roma, come la sua ancella georgiana, di cui vi racconterò. Ma doveva restare la sposa cadavere, la misteriosa straniera – insieme trofeo e reliquia – che il poeta-scrittore aveva condotto a casa. Attendeva la resurrezione nell’Ara Coeli, scrigno di affreschi, pitture, marmi, mosaici di inestimabile pregio, nonché del Bambinello – la statua che esaudisce ogni speranza. Ma oggi la sua tomba è dispersa.

Della giovane assira, romana per sempre, restano il ritratto, e le parole che le ha consacrato Pietro: da cui ancora si sprigiona lo strazio di un sogno interrotto, l’utopia della fusione di due anime e corpi diversi eppure uguali.

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