Nel suo esordio romanzesco, Giovanni Fontana scava in una voce apparentemente secondaria rivelandone i sentimenti contrastanti e l’esigenza di racconto
Potere dei paratesti, verrebbe da dire. La quarta di copertina dell’esordio come romanziere di Giovanni Fontana – nato a Mendrisio e già Premio svizzero di letteratura con i racconti di Breve pazienza di ritrovarti (Interlinea, 2015) – indica che tutto si svolge attorno alla «figura umbratile di Elena», di cui viene ricostruito il tormentato percorso esistenziale che si snoda fra Lombardia e Svizzera, dagli anni Trenta a oggi. La sua personalità complessa e sfuggente è messa a fuoco – si legge ancora – «attraverso le testimonianze di chi ha condiviso il suo cammino: i figli Luca, il primogenito malato, e Pietro, mediocre incarnazione del buon senso; il marito nevrotico; il fratello; la cognata; un prete; uno psicanalista; una badante». In questa polifonia, l’unica voce sulla quale viene espresso un giudizio morale è dunque il «mediocre» figlio Pietro. Quasi a suggerire: vuoi vedere che il suo ruolo sarà diverso da quello degli altri attori di un romanzo apparentemente Elena-centrico? E soprattutto: chi lo giudica in modo così severo?
Il primo interrogativo trova una risposta sin dal prologo. Riaccompagnando a casa la madre dopo un esame medico, Pietro non riesce più a reggerne la narrazione edulcorata: «Non siamo mai stati così uniti come allora», dice la donna riferendosi al trauma della manifestazione della malattia psichica del figlio maggiore. Pietro sente la necessità di «risalire i tornanti della sua vita» (della madre? di sé stesso? di entrambi? Non sarà l’unico caso di ambiguità), «seguendo una freccia che punta, forse, al cuore dell’enigma». È l’inizio della contronarrazione di Pietro, cui prendono parte figure testimoniali che si esprimono in prima persona, e che a me – azzardo allora un’ipotesi di lavoro – paiono tutte proiezioni dei suoi fantasmi; tanto che alla fine ne risulta un racconto ancor meno affidabile di quello della madre. Noto a questo proposito un paio di elementi: la limatura operata sugli scarti linguistici tra le varie voci – pur presenti – mi sembra programmaticamente orientata a incrinare l’impianto di una narrazione polifonica e mimetica (la badante rumena Violeta mostra ricercatezze espressive incongrue per un personaggio condannato all’umiliazione di una parola «che resta sempre al di sotto dello sguardo e dell’intenzione»); Pietro scivola fuori dal letto coniugale, scende nello studio e riprende tra le mani una cartelletta su cui sta scritto Storia di mia madre, quasi a mostrare un personaggio ancora impantanato in un grumo di tensioni famigliari stratificate e irrisolte (i suoi figli, ammesso che ci siano, non sono peraltro mai nominati).
Pietro ripercorre la vita di Elena sempre in bilico tra slanci di affetto e gelosia, risentimento e senso di colpa, arrivando infine a considerarla come una «madre-coetanea» al cui lutto non sembra preparato («Un prendisole azzurro lascia scoperte le spalle e le braccia, con la pelle flaccida, cascante. Pietro chiude gli occhi»). Il padre Ernesto appare come un personaggio ingombrante nella sua distanza («Non c’è niente da fare» pensa Pietro, «il termine di confronto è sempre lui»), dimidiato – come il figlio – tra bisogno di piacere e paura di essere ignorato. Il fratello Luca – la cui patologia occupa quasi totalmente lo spazio e l’orizzonte famigliari – suscita sentimenti più complessi, tra rivalità e dipendenza reciproca. Con tutti e tre Pietro sembra instaurare una serie di rapporti che si giocano però soprattutto sul piano della letteratura: Elena decide di studiare Lettere per «diventare sé stessa»; Ernesto, professore come il secondogenito, aveva in progetto di scrivere un romanzo; Luca anestetizza la realtà attraverso la lettura e la scrittura.
Le ossessioni di Pietro sembrano riflettersi anche sulla famiglia di origine di Elena: la madre, che – presto vedova – lascia nella casa di Bellagio la figlia tredicenne per un periodo di villeggiatura «col signor Luigi» (e che Elena abbandonerà a sua volta anzitempo al capezzale per tornare a occuparsi di Luca); il fratello, deluso dalla scarsa considerazione del padre; le cognate, entrambe divorate da sentimenti contraddittori. E poi, in una serie di cerchi concentrici vieppiù ampi, i fantasmi di Pietro si proiettano anche su attori laterali nella vita di Elena, figure curanti che appaiono tuttavia più fragili rispetto ai loro assistiti, e nelle cui parole la donna appare sempre sessualmente connotata (non proprio una questione irrilevante, per un personaggio che a un certo punto ha dovuto fare i conti con i corpi e non ha più potuto rifugiarsi solo nelle parole).
Il racconto di Pietro è insomma attraversato da giochi di specchi e da rifrazioni continue (Elena che decide di parlare allo psicanalista come se fosse Luca, «per interposta persona»); da ambiguità sulla voce narrante («Ricucire i lembi della sua vita in una trama credibile, capace di resistere agli strappi della vecchiaia che incombe, sarà più difficile di quanto prevedeva»: è Elena a essere in difficoltà nel raccontare la propria storia o Pietro nel ricostruire quella della madre?).
Né sono irrilevanti – in questa prospettiva – le sette occorrenze della parola «palcoscenico» (e annessa isotopia), che sembrano davvero indicare come il regista Pietro stia allestendo un romanzo-teatro, una cornice letteraria – manifestamente esibita nella costruzione – che permetta di dare senso alla complessità dei suoi abissi. Così credo si spieghino la rigida strutturazione del libro (due parti di eguale lunghezza, internamente segmentate e intervallate da un prologo, un intermezzo e un epilogo); le riprese per anadiplosi tra i capitoli (a suggerire i moti dell’animo e le associazioni mnemoniche di Pietro); la fitta tramatura di passi letterariamente mediati (Pietro scrive un libro citandone altri, un atto di fiducia nella letteratura e nella sua possibilità – come nel caso dell’insorgere della malattia di Luca – di ridire le cose con parole altre); la ricorrenza di alcuni oggetti (le pagine con la grafia ondeggiante di Elena) ed elementi linguistici (i periodi, sintatticamente compiuti nella loro reticenza, «Mentre lei» e «Mentre tu», distanti quattro pagine l’uno dall’altro). Soprattutto, appaiono evidenti le simmetrie tra le zone liminari del libro. L’esergo di Luzi – che sembra alludere a un disfacimento (poi reso, nello scorrere delle pagine, dalla precisione con cui sono indicati i numeri civici delle varie case in cui ha vissuto Elena) – si riverbera sui versi di Rilke della chiusa, in cui trova una spiegazione anche il titolo.
Il romanzo si riavvolge allora su sé stesso rimandando alla dichiarazione programmatica enunciata in copertina: il tentativo cioè di dare senso alle «macchie azzurre» di cui si compone il poliedrico personaggio di Elena sistemandole entro la cornice unitaria di «una sera d’estate»; in un macrotesto in cui le spinte centrifughe possano incarnarsi senza escludersi e la scelta delle parole risponda a esigenze nobilmente conoscitive (sulla qualità, altissima, del tessuto stilistico andrebbe fatto un discorso che qui non è possibile neppure abbozzare).
Pietro sta tutto in quella virgola che separa le due parti del titolo, nel tempo necessario all’allestimento di un canzoniere in prosa che lo faccia sentire meno «mediocre». Nessuna pacificazione, dunque, ma una provvisoria tregua con i propri fantasmi. Se Giovanni Fontana scriverà un nuovo romanzo, significa che saranno tornati a farsi sentire.