L’universo immersivo di Dirk Koy

È sicuramente suggestivo l’incontro tra l’imponenza di un maniero che trasuda storia da ogni pietra e l’agile mutevolezza dell’arte digitale: le mura secolari di Castel Grande a Bellinzona e le opere dell’artista basilese Dirk Koy sono l’unione inaspettata di solida realtà e fluida virtualità, di materia e immagine, di concretezza e intangibilità.

Un connubio, questo, che, nel legare la coriacea possanza dell’antico alla disinvoltura della contemporaneità, riesce a sollevare quesiti sul nostro rapporto con il mondo, la tecnologia, il tempo e la memoria.

La mostra dedicata a Koy, ospitata nella Sala Arsenale del castello e organizzata dal Museum of Digital Art (MUDA) di Zurigo, in collaborazione con la Città di Bellinzona, può essere a buon diritto considerata un vero e proprio viaggio che dall’esperienza del reale ci catapulta in uno spazio incorporeo carico di potenzialità.

Uno spazio dove tutto ciò che ci sembra familiare si dissolve e si ridefinisce in qualcosa di inedito, tracciando traiettorie che esplorano territori dai labili confini tra fisico e immateriale.

Che la realtà sia sempre l’indiscutibile punto di partenza dei lavori di Koy lo testimonia un video, fruibile appena si accede alla sala del castello, posto proprio a rimarcare quanto la relazione con l’ambiente circostante sia una continua fonte di ispirazione per l’artista svizzero.

Sono soprattutto gli elementi inusuali del paesaggio, sia esso naturale o antropico, ad attirare la sua attenzione: piccoli particolari, dettagli che Koy scopre grazie a un atteggiamento che mescola una meticolosa osservazione delle cose a una più spontanea apertura verso tutto ciò che può animare la sua creatività.

Gli spunti che accendono la mente di Koy, elementi grezzi del creato così come configurazioni del tessuto urbano, sono frammenti della quotidianità che vengono stravolti e riassemblati dall’artista attraverso le tecnologie digitali più avanzate. In questo suo decostruire e ricostruire il reale, Koy utilizza difatti un approccio multidisciplinare che mescola regia, animazione 2D e 3D, videoarte e composizione sonora con l’intento di indagare la sottile linea di separazione tra naturale e artificiale.

Un’indole sperimentatrice, la sua, che aveva già fatto capolino in tenera età, quando l’artista trascorreva ore a tagliare e rimontare la banda magnetica dei nastri VHS dei genitori.

È così che Koy cattura forme e strutture tangibili, ricombinandole poi in elaborazioni dinamiche e audaci che ci restituiscono un’insolita visione della realtà. L’ordinario, il conosciuto e l’abituale si trasformano e acquisiscono significati alternativi, assurgendo a rappresentazioni ibride in movimento che disorientano, destabilizzano e incuriosiscono.

Consapevole della flessibilità inventiva dell’arte digitale, in grado di manipolare e connettere le immagini a livelli più profondi, Koy indaga nuove opportunità metodologiche di ricerca e, di conseguenza, nuovi paesaggi percettivi. L’artista svizzero è intimamente calato nella contemporaneità: esplora, sposta i limiti e forza la realtà con i mezzi che la sua epoca gli mette a disposizione.

Saggiare le potenzialità creative attraverso quello che il filosofo Walter Benjamin definirebbe il punto massimo della tecnica allo stato dell’arte, ha condotto Koy ad assecondare le esigenze di un pubblico sempre più vasto in cerca di esperienze immersive e interattive in cui le barriere e gli ostacoli fisici e spaziali sono completamente rimossi.

È proprio quello che succede nella rassegna di Castel Grande, dove i lavori di Koy interagiscono con lo spettatore in modi sempre diversi. In Fixed Series del 2019-2020, l’artista crea dissonanze visive che sfidano le nostre aspettative di movimento, di prospettiva e di gravità, mentre nell’opera intitolata Shape Study Series (2019-2024) illustra con spirito giocoso come le forme e la materia possano essere fluide e mutevoli trasformando le fotografie e i video di oggetti appartenenti alla nostra quotidianità in animazioni in cui questi stessi manufatti vengono deformati e distorti. Tali elementi abbandonano così il loro aspetto familiare per diventare qualcosa di stravagante e inaspettato.

Uno dei lavori tra i più significativi di Koy è Bös-ch («albero», in romancio), del 2024, in cui un pino cembro è stato catturato tramite fotogrammetria e trasformato in un modello 3D animato: mettendo in evidenza gli intricati particolari della sua struttura, l’artista fa sì che la superficie della pianta acquisti a poco a poco i tratti topografici di paesaggi e strati geologici per poi far emergere dalla corteccia organismi digitali che in un primo momento si diffondono nello spazio circostante e, successivamente, recedono nascondendosi nelle venature del legno, in un coesistere di componenti naturali e artefatte.

L’incontro tra vero e simulato viene sviluppato in maniera originale da Koy anche nell’opera Island, del 2023, la ricostruzione di un ecosistema digitale autosufficiente in cui una pianta virtuale cresce indisturbata tra gli elementi del mondo reale.

Per realizzare questo luogo immaginario l’artista ha raccolto filmati girati al mare a Fiumicino, in Italia, e nella Foresta Nera, in Germania. Pietre, alberi e altri frammenti della natura sono stati così rielaborati per dar vita a un armonioso complesso digitale che riconsegna un’immagine lirica della realtà.

La mostra bellinzonese presenta anche alcune opere di Esther Hunziker, Sabine Hertig, Andreas Gysin e Sidi Vanetti, artisti elvetici il cui lavoro è affine a quello di Koy nel porre quali punti cardine della ricerca la riflessione sull’evoluzione dei linguaggi visivi nell’era digitale e il serrato dialogo tra natura e tecnologia.

Di Esther Hunziker, le cui creazioni interrogano la percezione della realtà negli spazi liminali tra verità e illusione e tra quotidiano e straordinario, la rassegna espone Streamers, del 2018. In quest’opera i corpi che si presentano su un monitor come strane formazioni rocciose 3D si animano attraverso il linguaggio umano proveniente da tracce audio di vlogger che l’artista ha estrapolato online.

Hunziker raccoglie difatti dalla rete globale voci di individui che parlano dei loro sentimenti e delle loro aspettative per poi farle rivivere in questi oggetti alieni.

Il duo Gysin-Vanetti, con l’approccio ludico che lo contraddistingue, ci rivela invece nei suoi lavori il potere dei pattern e delle strutture che ci circondano. Succede così nell’opera intitolata Sassi (2019-2025), che, facendo leva sulla pareidolia, il fenomeno psicologico per cui siamo portati a percepire forme familiari in immagini casuali o ambigue, ci induce a riconoscere volti umani su alcune pietre naturali.

Attraverso l’uso di sovrapposizioni digitali che evidenziano i segni, le crepe e le fessure sulla superficie delle rocce, emergono così visi bizzarri e inquietanti, in taluni casi memori delle creature ibride e mostruose delle grottesche rinascimentali.

L’opera Exhibition (2025) è un lavoro a due mani in cui le manipolazioni digitali di Dirk Koy incontrano le creazioni analogiche di Sabine Hertig, artista basilese che utilizza la tecnica del collage campionando e assemblando il flusso perpetuo di immagini prodotte dall’uomo.

Il risultato è uno scenario in cui arte, architettura e ambienti virtuali interagiscono tra loro in una dimensione sospesa tra convenzionale e surreale. Una dimensione magmatica, disinvolta e affascinante che apre allo spettatore infinite possibilità di lettura.

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