Quando si dimentica la propria storia

by Claudia
18 Agosto 2025

L'Europa perde senso della realtà in una stagione di guerre che tendono a unirsi in una nuova Guerra grande

Le faglie che dividono i popoli non sono sempre le stesse. Una però è più importante di ogni altra: il senso di sé, incentivato dal mito collettivo. Variazioni su una tradizione accettata, spesso inconscia tanto è profonda. C’è, quando c’è, anche se non ci riflettiamo. Il senso di sé non esiste senza storia. Che cosa succede quando la storia evapora, tutto si schiaccia sul presente, come se il mondo fosse piatto, non in senso spaziale, ma temporale? Vista oggi con il distacco che possiamo concederci nel nostro tempo sospeso, tempo di guerre senza fine (maschile e femminile), questa è la malattia di ciò che resta dell’Occidente. Specie di noi europei.

C’erano una volta l’Europa occidentale e quella orientale, l’Ovest e l’Est. Riferimenti certi. Cartografabili. Nell’Ottantanove ci hanno spiegato che il crollo del Muro avrebbe finalmente unito gli europei – persino i tedeschi – quasi non fossimo sempre stati divisi. Giovanni Paolo II celebrava il Vecchio Continente capace di respirare con i suoi due polmoni. E Fukuyama cesellava la sua fine della storia, formula chimica: abolite insieme storia e geografia, matrice diabolica di ogni conflitto, l’umanità si ricomponeva (per umanità s’intendeva quella boreale, lo spazio dei grandi imperi antichi e moderni, il Grande Sud allora si chiamava Terzo Mondo, forse umano forse no, comunque oggetto mai soggetto, rigorosamente senza storia). Pax Americana. Età noiosa, avvertivano i suoi cantori, abitata dall’«ultimo uomo» annunciato e disprezzato da Nietzsche per il suo ebetismo. Non troppo diverso a valori rovesciati dall’uomo nuovo del dopo-storia, il comunista evocato da Marx, convinto che quell’uomo sarebbe stato il più umano, dunque il più felice di sempre. E per sempre.

Trent’anni dopo scopriamo che la faglia principale che ci risepara è quella fra popoli con o senza storia. Tra chi è consapevole delle proprie radici e chi dimentica perfino di averle avute. Su scala globale, è la linea di separazione fra le grandi potenze asiatiche nascenti o rinascenti, quali Cina, Russia, India o Turchia, e gli Stati Uniti, dove molti americani non si riconoscono più in altri americani, troppo diversi e troppo distanti dal ceppo bianco anglosassone protestante, destinato a scadere da egemone a minoranza fra le altre entro il 2050. La stagione di guerre che tendono a unirsi in una nuova Guerra grande esprime questa deriva dei Continenti. Storica, prima che geografica. In noi euroccidentali, aggruppati in incerte, senescenti collettività, eccita il sentimento di essere fuori del tempo tanto da illuderci immuni dalle mischie e dai tornei militari che ci si agitano intorno. E che, al massimo, studiamo con sguardo da entomologo perché non ci riconosciamo in coloro che le muovono. Disumani.

Come osserva lo storico Romano Ferrari Zumbini nel suo formidabile studio su Il Grande Giudice. Il Tempo e il destino dell’Occidente (Roma 2025, Paracelsus editori), «il filo del tempo è lo strumento indispensabile per la diagnostica della Storia, senza la quale l’essere umano si vota alla solitudine e all’ignoranza». In breve, perde il senso della realtà. E la realtà – con le sue collettività reali – lo ignora. Annuncio di rovina per chi si immagina al sicuro. Senza nemmeno concepire di poter intervenire nella storia perché l’ha abolita. Dunque la subisce. I popoli storici disegnano il destino dei post-storici. La storia dell’oblìo della nostra storia comincia con la sconfitta degli imperi europei (1914-45) che mette i fortunati del Vecchio Continente a disposizione del Nuovo Mondo a stelle e strisce, semplice e suadente, mentre oltre il Muro l’impero sovietico replica lo stesso schema all’Est, al suo oppressivo modo. Scaduto lo schema cartesiano della Guerra fredda – ergo pace nelle nostre case – i due pezzi d’Europa si sono frammentati a dozzine, persino all’interno dei singoli Stati. Tanto che ormai, nel canonico spazio tra Atlantico e Urali (partizione insensata, ma ce l’hanno insegnata a scuola, contribuendo a convincerci che la geografia determinasse la storia sempre e per sempre), nessuno sa quanti Stati esistano davvero. Chiara è solo la faglia fra Est e Ovest. Insuperata.

Chi ne dubitasse prenda un atlante e osservi dove fossero e dove restino oggi i campi di battaglia. Sono quelli della prima guerra mondiale. Più o meno attorno all’istmo di Europa, come Braudel definiva la verticale Baltico-Nero. Qui si sono incrociate le armi dei grandi imperi europei, tutti morti suicidi. Qui si trova l’Ucraina, per suo stesso nome regione di confine incastonata fra Reich guglielmino, impero russo, Austria-Ungheria e impero ottomano. Terre insanguinate, teatro dell’Olocausto, orrore scatenato dai nazisti cui hanno partecipato, talvolta con zelo speciale, anche genti insediate nella faglia fra Est e Ovest e che oggi si rappresentano Centro. Qui il senso della storia non è perduto. Anzi, è spesso rivissuto come serie infinibile di sconfitte e vendette fra entità che si presumono troppo aliene per convivere. E noi? Noi siamo stati educati a dimenticare la storia. Grazie agli americani, il cui impero europeo, ormai in decomposizione, si reggeva sulla certezza del nemico russo e sulla molto presunta affinità culturale con gli europei occidentali. Controscuola (soprattutto Umschulung dei tedeschi occidentali) forse un po’ troppa forzosa. Vedi la finta coppia franco-tedesca: due sogni nello stesso letto, fra chi non si sopporta più. Perso il senso della realtà, abbiamo deciso che tocca riarmarci. Perfettamente logico. Ma non sarà che senza gli americani torneremo a usare le armi come fino a ottant’anni fa, europei contro altri europei? Per fortuna non abbiamo il tempo di pensarci.