Capita sempre più spesso di condividere con amici e conoscenti grande tristezza e profonda indignazione per l’immane tragedia umanitaria di Gaza. La condivisione della sofferenza e l’indignazione per l’inefficacia delle denunce politiche, lo sdegno per la mancanza di coraggio delle nostre democrazie a rischio di complicità, sono diventati un grido collettivo.
Con sfumature diverse e dentro diversi orizzonti di senso ciò che emerge è la preoccupazione per valori umani brutalmente calpestati, in primis il rispetto della vita dei bambini.
Ma dolore e indignazione ci interpellano anche in altro modo: siamo in molti ormai a non più riuscire a guardare le immagini devastanti che affiorano dagli occhi di bambini feriti e affamati e dai volti consunti di mamme disperate e di anziani inermi. Siamo in molti a non poter guardare, a non riuscire a sostenere la vista di tanta sofferenza.
Questo nostro sguardo ferito, che non riesce più a guardare, è però tutt’altra cosa rispetto a quello di coloro che non guardano semplicemente perché non vogliono o non sanno vedere.
In questo nostro sguardo ferito c’è un vissuto, un modo doloroso di abitare la propria vita, che non ha nulla a che fare con gli occhi distratti di coloro (e sono molti) che continuano tranquillamente a portare a spasso i propri giorni dentro un disincanto più o meno sereno e rassicurante, egoistico e autoreferenziale.
Questo nostro non riuscire a guardare custodisce infatti un potente desiderio di vedere. Ma si tratta di un desiderio, o meglio di un bisogno assai difficile anche solo da riconoscere in questo mondo che si racconta dentro sguardi resi incapaci di vedere davvero.
A ragione il filosofo e economista Serge Latouche osserva nelle sue analisi che dobbiamo decolonizzare l’immaginario per liberarci dalle gabbie di pensieri già pensati e per riuscire ad accogliere la realtà, per lasciare che ciò che accade si manifesti a noi con la sua autentica voce.
Quanto sia difficile riconoscere e coltivare la pura accoglienza di ciò che ci circonda emerge anche dalle lucide analisi con cui il filosofo Byung-Chul Han ci invita, nei suoi brevi saggi, ad una lettura critica del nostro attuale stare al mondo. «Oggi percepiamo la realtà soprattutto in termini di informazioni. Lo strato informativo (…) scherma la percezione da qualsiasi intensità», scrive nel suo bel libro Le non cose, osservando come l’informazione renda difficile sperimentare la presenza dell’altro. «Ci stiamo dirigendo verso un’epoca trans e post-umana in cui la vita non è che mero scambio di informazioni». Ma umano viene da humus, dalla terra: l’espressione della nostra umanità ha bisogno di un legame fisico, reale, con l’altro e con il mondo.
In questo senso i nostri occhi, feriti e impotenti, si chiudono, incapaci di riconoscersi in sguardi schermati che confliggono con il bisogno di sentire la presenza dell’altro; sguardi che ci allontanano dal desiderio di riconoscere quella reciproca vulnerabilità da cui nasce l’intensità di ogni legame vero.
I nostri sguardi feriti è come se gridassero un implicito diniego, non solo di ciò che sta accadendo, ma anche dei racconti in cui l’immane tragedia prende la parola.
Questo doloroso vissuto a me pare però solo un segno visibile di qualcosa che pesca altrove le sue ragioni, segno di un sentire potente quanto inespresso che nasce negli strati più profondi della nostra umanità. È in questo vissuto che ci raccogliamo in silenzio in ascolto di quello che, con il filosofo Blaise Pascal, mi piace chiamare il sapere del cuore. Come spesso mi capita di ricordare, nel cuore di Pascal non ci sono sentimentalismi buonisti ma solo una forma di conoscenza intuitiva in cui si esprime con forza la passione per la verità. Mettersi in ascolto del cuore è una forma preziosa di conoscenza perché nel vedere del cuore ciò che vediamo può trovare altrove la sua visibilità.
Il sapere del cuore chiede di accogliere la realtà nel suo darsi spontaneo, di lasciarsi toccare dalla sua presenza, il che significa sperimentare un’intimità con la vita in tutte le sue manifestazioni. È apertura su un vedere diverso che diventa un’esperienza dell’anima.
Quando la razionalità detta l’agenda dei nostri giorni, quando il linguaggio razionale impone le parole per pensare e per orientare il nostro cammino e i legami si riducono allo scambio di informazioni sul mondo, diventa difficile riconoscere e coltivare il sapere del cuore, il suo essere una bussola preziosa per camminare nella vita.
Si perde così un’espressione feconda della nostra umanità: le tragedie del presente sono lì per ricordarcelo.